1968

Ipotesi per un grande Tropi

Salone Annunciata, Milano


Dany Oppi


Gillo Dorfles


“Se è vero che, un tempo, - nella Siena del '300, nella Norimberga del '500, nell'Atene del 400 a.C. - i movimenti artistici, le stagioni stilistiche, avevano una loro traiettoria misurabile in decenni, in secoli addirittura, mentre oggi bastano pochi anni a veder fiorire e appassire indirizzi in apparenza robusti e vitali; bisogna, però, tener conto che allora si trattava di piccole cittadelle solitarie, protette dalle loro mura (fisiche e spirituali) dalle quali ben poco trapelava; mentre oggi la diffusione d'un determinato verbo artistico è talmente vasta e rapida che la dimensione «topografica» compensa ampiamente la limitatezza della durata cronologica. Dico questo per giungere subito alla domanda che mi sembra più ovvia di fronte ad opere come a quelle esposte in questa mostra: si tratta, dunque, di «strutture primarie», di quelle strutture che abbiamo visto affermarsi negli USA (come in Giappone, Germania e Inghilterra) negli ultimi due o tre anni e che hanno trovato anche in Italia la loro stagione propizia? Ebbene: solo in parte, credo, e solo in apparenza; seppure alcuni degli artisti qui presenti hanno subito l'inevitabile influenza delle più recenti stagioni artistiche, non c'è dubbio che il loro lavoro è stato in buona parte autonomo e autodeterminato. Infatti questi otto artisti sono uniti non da schemi ideologici né da precisi impegni programmatici, ma solo da una certa quale affinità di ricerca che si può riassumere in alcuni punti chiave rilevabili solo a posteriori dall'osservazione delle loro singole opere e che potremo così riassumere:

  1. 1)il rifiuto della iconicità delle immagini, almeno nel senso d'un recupero neofigurativo delle stesse

  2. 2)il rifiuto d'ogni pittoricismo e l'adozione di nuovi materiali tecnologici (lamiere verniciate, plexiglas) o, quanto meno, di colori essenzialmente timbrici

  3. 3)l'acuto interesse per l'aspetto oggettuale della visualità, sia nel senso di costruire l'oggetto singolo che nel rapporto dello stesso con lo spazio ambientale

  4. 4)l'accettazione della tendenza strutturalista, ma nel tentativo di giungere a un tipo di strutturazione che vorrei definire «secondaria»; ossia derivante dall'oggettivazione dello spazio attraverso un'operazione di recupero intellettuale dello stesso quale di solito non appare nelle strutture primarie di marca americana.

Da quanto sopra emerge: una approfondita ricerca dell'elemento strutturante sia nel suo rapporto con l'ambiente (Marzot, Emma, Del Ponte, Ramosa); sia quale oggetto a se stante e quanto mai complesso (Aricò, Cordioli, Battaglia) o nel caso dell'unico cinetico, Colombo, nel suo attivarsi e deformarsi in seguito al movimento. Ovviamente questo mio tentativo di accomunare le diverse ricerche sotto un unico momento programmatico è quanto mai rischioso e oltretutto non può che amputare quelle che sono, e devono essere, le caratteristiche individuali d'ogni singolo operatore. Per cui, anche senza giungere ad un'analisi particolareggiata di ognuno di essi, vorrei almeno individuarne le essenziali posizioni. Ecco, allora come in Aricò - forse il più maturo ma anche il più contrastato e controverso degli otto - è possibile rinvenire l'impegno di ricostruire, attraverso una dimensione volutamente ambigua dell'oggetto, quell'aleatorietà cromatico-tonale che era stata sino a un paio d'anni or sono una delle costanti della sua pittura e che oggi ha lasciato il posto ad una maggior precisione delle forme e dei colori senza tuttavia distruggere l'indeterminatezza delle sue composizioni. In Cordioli, per contro, un'aderenza a valori tuttavia pittorici (l'uso di tela tradizionalmente dipinta ma già oggettualizzata dalla sagomatura precostituita) vale a creare sottili concatenazioni con l'ambiente, mentre suggerisce una futura possibiità di superare le limitazioni d'una maniera ancora parzialmente artigianale. Molto diversa la posizione di Battaglia, sino a ieri in parte succube di certi schemi cari all'action painting statunitense, ma oggi decisamente proteso verso una rigorosa e scanditura geometrizzante della tela, dove la sua innata sensibilità per il colore tonale, è arginata da una nuova ricerca di indeterminatezze prospettiche. In Ramosa, è tuttora avvertibile (e non potrebbe non esserlo) l'origine brasiliana, nel cromatismo talvolta folklorico delle sue composizioni, mentre l'aspetto giocoso, un tempo più acceso, ha lasciato il posto ad una più rigorosa strutturazione spaziale. Anche nel caso di Emma è soprattutto la volontà d'una segmentazione dello spazio a dirigere le sue che chiarei «domestico» delle sue strutture metalliche. Per Marzot, invece, l'abbandono d'una sua precedente (e feconda) stagione tonale (che l'aveva accomunato in parte ad Aricò) è stato determinato, in buona parte, da un prolungato soggiorno negli USA, e infatti molte delle sue più recenti sagome metalliche trovano dei facili addentellati in opere d'artisti nord- americani, salvo per la peculiare leggiadria del suo operare e per la ricerca di effetti non solo stereometrici ma, come in Aricò, di indeterminatezza compositiva. Si differenziano dagli altri sei le opere di Colombo e della Del Ponte; quest'ultima per il fatto di servirsi quasi esclusivamente del plexiglas per le sue composizioni, «i Tropi», di cui in questa mostra viene presentata piuttosto una realizzazione immaginaria (mediante un prisma tracciato con fili metallici) che un oggetto reale; e Colombo, per la componente cinetica che sta sempre alla base del suo operare e che in questa mostra è costituita da uno spazio delimitato da due schermi rotanti che creano delle immagini postume di notevole efficacia percettiva. La brevissima descrizione che ho tentato di dare dell'opera d'ogni singolo artista non vale ovviamente a precisarne la autentica importanza, ma vuol essere soltanto un elementare cenno esplicativo. Quello che mi preme soprattutto di affermare qui è come artisti, provenienti da posizioni quanto mai diverse (pittoricismo tonale nel caso di Aricò e Marzot, pittura legata a valori materici per Battaglia, origine folklorico-totemica per Ramosa, e via dicendo), abbiano potuto sfociare in una abbastanza convincente omogeneità creativa che evidentemente deriva dal loro essersi inseriti nell'attuale fase della nostra cultura tecnologica, avendone saputo accettare i suggerimenti senza tuttavia rinunciare alle loro individuali e native caratteristiche personali.”


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