1992
La forma del suono
Studio 51/A, Roma
Litodramma
composto ed eseguito da Gian Luca Ruggeri
Giovanna dalla Chiesa
Un incontro con Amalia Del Ponte
in “NEXT”
1992
“Al numero 51/a di via Margutta in Roma, quasi alla metà della strada degli artisti, a pochi passi dall'ex convento di monache che ospita l'Accademia musicale di S. Cecilia, i luoghi emanano ancora il profumo del sodalizio fra l'arte e la musica, fra il mistico e il profano; in questa occasione, e le chiedo: D. Come si passa al mondo del suono da materiali, come la pietra e il marmo, che tradizionalmente hanno sempre indicatola stabilità e staticità della scultura? R. Credo che ci sia una … contraddizione nell'affrontare il materiale per uno scultore. Per un verso si è attratti dalla durezza e pesantezza della materia e per l'altro dal bisogno di fissare qualcosa che si muove. Questo tipo di paradosso è intrinseco della scultura, che si fonda, peraltro, su un'esperienza alquanto diretta ed originaria. Anche il problema dello spazio… D. Come formalizzavi questa ricerca? R. Usavo materiali diversi, il cemento o lastre di ferro, accostati a grandi prismi di plexigas; si potevano "vedere" spazi illusori, ribaltamenti d'immagini, rifrazioni della luce, che mutavano dai diversi punti di vista. La forma reale non era più leggibile. Prima avevo fatto dei lavori più piccoli usando il cristallo di rocca, poi volendo trasporre la ricerca su una scala più ampia ho adottato il plexiglass, anzi l'ho fuso. D. Puoi accennarmi questo processo di lavoro? R. Avevo fatto delle fusioni ed usato delle resine trasparenti. Il plexiglass è una resina liquida che poi si solidi- fica. (polimerizza) Si preparano dei casseri, come quando si cola il cemento, così si fabbrica- no delle controforme di legno o altro in cui si versa il materiale liquido che polimeriz- zando si indurisce. Si deve lasciare che questo avvenga lentamente. Ottenni così dei prismi fino due metri di altezza. D. Una prima considerazione potrebbe riguardare, allora, quello che pare il tuo modo di ridisegnare il materiale operando al suo interno una sottolineatura del «volume del vuoto» attraverso alternanze di luci e ombre. Esattamente come gli scultori tradi- zionali le hanno sempre poste in evidenza dall'esterno, grazie ai giochi di luce su una superficie fatta di pieni e di vuoti. Una seconda, però, mi pare debba aver attinenza con il passaggio di corpi e materiali dallo stato solido a quello fluido (o viceversa): appunto la trasformazione che la musica ope- ra sulla materializzazione del mondo, riportandolo allo stato fluido originario. Questi tuoi motivi hanno poco a che fare con il mondo latino o greco. R. Si, dai padri greci… ad un certo punto ho preso comiato e mi è sembrato meglio andare a trovare i nonni ed i bisnonni. Voglio dire che il mondo greco e quello romano hanno distrutto il pensiero mistico unitario delle precedenti culture, privilegiando la vista rispetto all'udito,quindi, per sintetizzare, l'immagine rispetto al suono. D. È quanto hai avvertito quando hai cominciato ad addentrarti oltre la soglia della superficie, ma come sei arrivata dal cristallo e dal plexiglass alla pietra? R. Ho deciso di lavorare sul suono e per questo di utilizzare la pietra. Ciò che arriva, tuttavia, come luce e come suono è sempre la stessa energia: un'onda che ha uguale andamento e comportamento sia per la luce che per il suono, che si riflette o si rifrange, che attraversa il materiale oppure non lo attraversa, ma ne è rinviata. Sempre quest'onda con una differenza che rispetto a quella luminosa, l'onda sonora è molto più lunga ed ha frequenze più lente. D. La prima volta che ho pensato alla tua scultura sonora, qui nel giardino di via Margutta, al viaggio che il suono doveva compiere partendo dalle lastre in cui era condensato per raggiungere la terrazza sopraelevata in cui avremmo sostato percorrendo le scale in salita, non ho potuto impedirmi di ricordare: “Sviluppo di una bottiglia nello spazio” di Umberto Boccioni. Cosa è cambiato da quel lontano 1912 all'attuale lavoro di Amalia Del Ponte? R. Direi che vengono sollecitati dei sensi diversi, un modo di coinvolgere anche l'orecchio e la forma del suono è anche equivalente ad una forma visiva, c'è un rapporto di numeri, di misure precise che si corrispondono tra il suono e l'immagine, dunque io vorrei che, “ascoltando” le mie sculture, si potesse avvertire questa analogia. D. Un tentativo di restituire qualcosa come il tatto interno alla materia che vediamo e di riportarlo ad una consapevolezza dei suoi percorsi dentro di noi. O forse proprio a quel sentimento di possesso che la scultura evoca immediatamente quando avvertiamo il desiderio di afferrarla, di toccarla? R. Sì, una corda va pizzicata, un timpano percosso, la nostra energia, una volta impressa, trasferita alla materia, ci viene restituita. Se un lavoro è riuscito dovrebbe poter esprimere la propria sonorità anche nell'immagine o nei volumi. D. Cerco di immaginare le tappe del tuo lavoro, da quando prendi la pietra intonsa e cominci a batterla, provocando dei suoni, a quando cerchi di darle una forma consona alla sua intrinseca sonorità assegnandole una “parola visiva": la parola con cui essa suona e, al tempo stesso, si può vedere, toccare, sentire. Qual'è, allora, l'elemento basilare che ti conduce verso una forma e, d'altra parte, che cosa evoca dentro di te la pietra, una volta che l'hai sentita ed auscultata come farebbe un medico. O, se preferisci, che percorso fai tu per entrare, dentro la pietra? R. Nel caso di questi lavori il percorso è a monte, viene prima come progetto, in seguito come tu dici, quando trovo la pietra, sento se è sana e ascolto la sua voce. Ma il progetto era già stato pensato. Si tratta di rapporti numerici, quindi di misure, cerco di estenderle da una sequenza lineare ad una geometria della superficie. D. Hai usato altre volte il colore nella tua scultura? Vedo che sulle lastre di travertino hai tracciato dei segni colorati, un velo sottile che riveste la materia scheletrica di questa pietra. R. Sono delle traccie di colore che vado poi a incidere. Al colore sono abituata da sempre, Marino Marini, come sai, dava una grande importan- za al ‘ rivestimento’ cromatico delle superfici. Questi pezzi non sono ancora finiti, anche se l'idea, che sto realizzando, per la diffusione del suono: dalle lastre all'ambiente e da un ambiente interno ad uno esterno, lo ritengo in sé un evento compiuto che ha avuto un inizio, uno svolgi- mento, una fine. Mi è piaciuto, qui, misurarmi in una esperienza in divenire e anche in una sorta di scommessa e di rischio, iniziato nel momento in cui sono andata a cercare, nelle cave di Tivoli, una pietra che non avevo mai usato, ne «suonato»: il Lapis Tiburtinum che vediamo continuamente e con cui è costruita la maggior parte della città di Roma. D. Penso al sassolino che cade nello stagno e disegna un succedersi di cerchi nell'acqua. Oltre a sviluppare il tuo suono verso l'alto, per la prima volta in questa nobile, piccola corte di artisti, tu hai lanciato verso lo stagno, Roma, questo sassolino e l'hai fatto rìsuonare dentro un suo corpo antichissimo. Davvero un omaggio singolare e bellissimo che Roma, soprattutto, non aveva mai ancora avuto.”
Testi critici:
Amalia intona Ipotono
Video della performance