biografia

Amalia Del Ponte inizia la sua ricerca sui materiali tradizionali della scultura: gesso, terracotta, marmo, bronzo.
Comincia ad usare le resine termoindurenti nel 1963 per poi passare alle resine acriliche nel 1964.
Espone per la prima volta prismi in plexiglass, frutto della sua ricerca sugli effetti di riflessione e rifrazione della luce, in una collettiva alla Galleria Montenapoleone di Milano, presentata da Gillo Dorfless, e poi alla Galleria Adelphi di Padova nel 1965. Nel giugno del 1966 partecipa, su invito di Guido Ballo, al Salone Internazionale dei Giovani a Venezia dove espone le prime forme in plexiglass prodotte, la mostra è poi riproposta l’anno successivo alla Galleria d’Arte Moderna di Milano e alla Promotrice delle Belle Arti di Torino. Nel febbraio del 1967 espone altre strutture in plexiglass in una personale alla Galleria Vismara di Milano, definite Tropi in quell’occasione da Vittorio Fagone.

Nel 1968 al Salone Annunciata di Milano presenta Ipotesi di un grande tropo, allestimento ambientale site specific, con il quale l’artista suggerisce, con linee guida disegnate a terra e pannelli che riproducevano gli scorci che si sarebbero visti attraverso il prisma, la presenza di un tropo virtuale frutto di calcoli sugli indici di rifrazione e riflessione. In quegli anni le tecnologie produttive del plexiglass non consentivano di realizzare strutture di tali dimensioni. Nello stesso anno Amalia Del Ponte alla mostra Eurodomus al Palazzo delle Esposizioni di Torino cerca un’altra soluzione per realizzare un grande Tropo: riempie di acqua un contenitore in plexiglass a forma di prisma; sebbene la tenuta del plexiglass fosse stata calcolata da un ingegnere, il materiale plastico non resse il peso dell’acqua e l’opera andò distrutta.

Nel 1969 riesce a far produrre il primo prisma in plexiglass alto 190 cm fotografato da Arno Hammacher in un suggestivo cantiere.

Nel maggio 1972 di nuovo al Salone Annunciata presenta al pubblico due anni di ricerca sui tropi di dimensioni ambientali (h 190 cm circa), espone Tropo n° 1, How do you feel?, U.S.A., Presenza/Assenza, Omaggio a Borges: Finzioni, Mattia. Insieme a questi proietta sulle pareti dei locali poco illuminati della galleria una serie di grandi immagini di cristalli liquidi visti al microscopio.
Nel 1973 è invitata da Bruno Munari e Umbro Apollonio a partecipare alla Biennale di San Paolo, dove presenta tre opere: How do you feel?, Shan e Area percettiva. Quest’ultimo è un ambiente cubico di 6 metri di lato con angoli e spigoli interni smussati, dipinto di bianco e illuminato da una luce bianca abbagliante. All’interno colloca due grandi prismi in plexiglass e 4 punti di riferimento: una cartolina, un biglietto con un numero di telefono, l’impronta in gesso di una mano e due occhi di marmo.

In questa occasione Amalia Del Ponte vince il Primo Premio internazionale per la Scultura.

Nel corso degli anni Settanta abbandona le forme e le dimensioni scultoree per dedicarsi a un ricerca sempre più concettuale. Le opere di questi anni sono composte da materiali e oggetti di diverso tipo, spesso extrartistici. Amalia Del Ponte riflette sulla sua condizione di artista, cercando nuove modalità di espressione, mettendo in discussione gli stessi presupposti su cui ha basato la sua ricerca fino al quel momento e avviando un processo di dematerializzazione della scultura.

Nel 1974 espone in una mostra personale alla Galleria Toselli di Milano l’opera Accrescimento di un cristallo accompagnato da un testo dattiloscritto intitolato Intuizione alla conoscenza dei fatti.
In questa occasione Amalia Del Ponte accenna a un possibile sviluppo di questa idea: “Sto preparando dalle mappe come immagini di percorsi mentali e geografici, come ricercare le cose in modo che l’esperienza personale sia anche esperienza di altri soggetti.”

Nei tre anni seguenti partecipa a mostre collettive presso importanti istituzioni italiane e internazionali, esponendo i lavori degli anni precedenti, è un momento che la stessa artista definisce “di riflessione”.
Nel 1977, invitata da Lea Vergine, partecipa a Expò Arte. Ipotesi ’80 alla Fiera del Levante di Bari insieme ad altre artiste impegnate sul fronte del femminismo; Amalia Del Ponte presenta l’opera Culturae: florum omnium varietas (Nascita), dedicata a sua figlia: una riflessione sulla natura della donna e il privilegio di poter generare.
Tra il 1978 e il 1980 Marina Urbach la invita per tre volte a presentare i suoi lavori presso C-Space di New York, in occasione della terza esposizione nel 1980 realizza Musica da camera per sei strumenti in merito al quale Francesco Leonetti scrive:

“Il modo di oggettivizzazione di Amalia Del Ponte coinvolge materiali ed oggetti di vari campi disciplinati, con le relative fonti: analisi scientifica classica ed aggiunta, simbologia psicoanalitica, escogitazioni inventive settecentesche, testi sacri orientali, ecc. Viene anzitutto da ciò un repertorio di aloni suggestivi o di riferimenti razionali che gli oggetti producono e sono lasciati al lettore. Già nello stesso atto dell’estrarre e riporre, o scomporre e ricomporre, che è proprio di quest’opera, con un senso lieve di magia da spettacolo, con un senso aggiunto di dissecazione, col senso dichiarato di memoria e musica.”

Nel 1986 viene invitata da Arturo Schwarz a partecipare alla Biennale di Venezia intitolata Arte e Alchimia. Il curatore chiede “Quanto è importante per il suo lavoro quotidiano il rapporto tra alchimia e arte?”, Amalia Del Ponte risponde:

“La ricerca dell’alchimista non credo sia diversa da quella dell’artista, se questa è una proiezione a livello inconscio della psiche. Oppure, l’alchimista è artista quando cerca di scoprire l’essenza della materia e la riproduce intervenendo nei fenomeni chimici in tempi per così dire “umani”. […] La coscienza si rivolge all’interno, il nostro centro più profondo riscopre la propria sostanza. Come l’alchimista purifica il corpus da tutte le superfluitates, esponendolo al fuoco più ardente, lo scultore progressivamente a colpi di subbia, con un paziente lavoro di “togliere”, fa emergere la forma e insieme svela la materia del proprio immaginario. Nell’alchimia si giunge alla purificazione o mundificatio attraverso molteplici distillazioni; per la scultura un continuo sforzo per far affiorare il profondo alla superficie.”

Dal 1985 per circa un decennio Amalia Del Ponte sviluppa una particolare ricerca sul suono con i Litofoni, “pietre sonore, forme-suono che rimandano oltre il visibile: ricreano le invisibili corrispondenze tra le forme geometriche, le scale musicali e quelle dei colori.” (Eleonora Fiorani)

Sono diverse le mostre personali e collettive in cui espone le sculture sonore accompagnate da performance eseguite da importanti musicisti e compositori – Encantar alla Galleria Milano (1986), Magnamater al Superstudio di Milano (1988), Milano/Poesia ai Cantieri Ansaldo (1990), La forma del suono alla Galleria Belvedere di Milano (1993), Labyrint van klank a Fort Asperen di Utrech (1993) e infine nella Sala Personale del Padiglione Italia dei Giardini di Castello curata da Gillo Dorfless in occasione della XLVI Biennale Internazionale d’Arte di Venezia.

Nel 2005 espone Acqua nell’acqua alla Fondazione Arnaldo Pomodoro di Milano, per la mostra La Scultura Italiana del XX secolo a cura di Flaminio Gualdoni.

Continuando la sua ricerca libera dai condizionamenti della critica e del mercato, negli ultimi anni Amalia Del Ponte ha sviluppato una particolare sensibilità lirica alimentandosi della fascinazione per l’effimero e l’invisibile e sperimentando diverse tecniche espressive: video, performance, installazione, fotografia.

Nel 2010 realizza il progetto site specific Regno dei possibili, invisibili per le Case matte (ex polveriere austriache) dell’Isola di Certosa nella laguna veneziana, così descritto da Anne Marie Sauzeau Boetti:

“A un metro dalla laguna, nelle quattro casematte, ecco quattro oblò: come i vetrini di un microscopio, come gli oblò di una nave di Jules Verne, come il tondo che si richiude sull’ultima immagine di un film muto…
Negli oblò appare la laguna sottostante l’isola della Certosa, quattro “tuffi” nell’acqua nascosta sotto i nostri piedi… Le creature stravaganti che così affiorano e si succedono negli oblò non solo vibrano e si spostano, ma emettono sospiri, grida, fruscii.
A malapena l’occhio, di fronte all’incredibile ingrandimento, nota differenze tra la vita animale e quella vegetale (semmai il suono? Il vegetale rimane muto?).
[…] Amalia ha spartito questi due regni contigui tra le casematte 1 e 2. Le casematte 3 e 4 invece offrono una esperienza tutta diversa: riguarda ancora l’occhio e l’orecchio (con vera musica) ma le “creature” indagate qui non sono visibili nemmeno agli strumenti più sofisticati, perciò quello che appare sono traduzioni o equivalenze, ipotesi matematiche (del tipo spirale DNA). Queste forme meravigliosamente varie e astratte sono totalmente mentali, concettuali; nulla di biologico può emergere, la vita rimane invisibile, indicibile.
La proposta formale inventata si rivolge dunque all’occhio della mente, ma non la mente raziocinante bensì quella sensitiva, immediata: un sesto senso.”

La porta senza porta: “l’ultima mostra di Amalia Del Ponte (2015 Galleria Milano) si presenta ai visitatori come un’esperienza sensoriale di segni, suoni, e passaggi di luce e ombre ineffabili e appena percettibili.” (Alessandra Pioselli)