1966
1966
plexiglas, h 23,3 cm
angles 97°, 83°, 127°, 53°
Private Collection, Milan and Nederland
ph Arno Hammacher
The same object is photographed from a single point of view in different lighting conditions.
1966
1966
plexiglas, h 23,3 cm
angles 97°, 83°, 127°, 53°
Private Collection, Milan and Nederland
ph Arno Hammacher
The same object is photographed from a single point of view in different lighting conditions.
Due anni fa, quasi per caso, ebbi il primo di questi oggetti.
Per una decina di giorni su un piano di fronte al tavolo potevo in qualunque momento osservarlo, esplorarlo. Ogni volta l’impatto avveniva sul filo teso della simmetria, l’ostinata iterativa geometria del mondo fisico.
Alcune cose mi colpivano con maggiore insistenza. Nella lucida trasparenza della materia dove pensavo ogni frazione di luce avrebbe dovuto evocare una mesmeriana indeterminatezza, spigoli e piani acutamente preordinati proponevano un gioco razionale ma senza compimenti. Il gioco delle riflessioni che i fili tesi moltiplicavano e deflettevano si poneva nella stessa misura come affermazione o negazione e subito l’occhio si abituò ad annullare alcuni punti di lettura, a ribaltarli, a eseguire dei percorsi. Così l’articolarsi di piani e superfici mi portava di continuo in uno spazio che sapevo artificiale e risultava nei confronti dell’ambiente come un “negativo” rispetto a un “positivo”, uno spazio interno. Né mi sorprese che quello spazio si venisse strutturando e organizzando secondo schemi e dinamismi. Nel corpo trasparente, lente e schermo allo stesso tempo, potevo ritrovare l’eguale-diseguale-equivalente di Mondrian, rifiutarne però una lettura tragica o solo emozionale, considerare invece un rapporto matematico, più propriamente geometrico, usato in una destinazione espressiva. Certamente non contro né oltre la materia: m’accorgevo che il “fare” dell’artista aveva operato, non casualmente, sulla straordinaria potenzialità ottica della materia stessa con una operazione, se si può mutuare una espressione dei logici, di “trasformazione formale”, dentro i confini di un linguaggio espressivo. E dentro quella realtà ottica gli schemi della visione trattenevano e ricomponevano di continuo non finite geometrie. Mi rendevo conto che alle conclusioni l’operazione umanizzava una delle nuove materie che oggi vivono con noi e non possiamo, né avrebbe senso, rifiutare.
Ho proposto ad Amalia Del Ponte di chiamare questa serie di oggetti TROPI ricordando quanti significati questo antico termine conserva e pensando che qui potesse valere, in intensione e estensione.
Vittorio Fagone