1986
XLII Biennale Internazionale d’Arte, Venezia
a cura di Arturo Schwarz
opere esposte: Uroboros, Musica da camera per sei strumenti
1986
XLII Biennale Internazionale d’Arte, Venezia
a cura di Arturo Schwarz
opere esposte: Uroboros, Musica da camera per sei strumenti
Inchiesta
Arturo Schwarz:
“1. Quali sono gli aspetti della visione alchemica del mondo e della vita che maggiormente La interessano e con i quali si sente più in sintonia?
2. Quanto è importante per il Suo lavoro quotidiano il rapporto tra alchimia e arte?”
Amalia Del Ponte:
“La ricerca dell’alchimista non credo sia diversa da quella dell’artista, se questa è una proiezione a livello inconscio della psiche. Oppure, l’alchimista è artista quando cerca di scoprire l’essenza della materia e la riproduce intervenendo nei fenomeni chimici in tempi per così dire “umani”. Ora la ricerca, oltre che negli istituti e università, è fatta (con mezzi giganteschi) in laboratori su piattaforme spaziali o scavati sotto alte montagne, ma credo sia sopravvissuta in alcuni ricercatori la loro parte creativa. Non so in che misura ne sono coinvolta; il mio lavoro mi aiuta a cercare, mi da una direzione. La coscienza si rivolge all’interno, il nostro centro più profondo riscopre la propria sostanza. Come l’alchimista purifica il corpus da tutte le superfluitates, esponendolo al fuoco più ardente, lo scultore progressivamente a colpi di subbia, con un paziente lavoro di “togliere”, fa emergere la forma e insieme svela la materia del proprio immaginario.
Nell’alchimia si giunge alla purificazione o mundificatio attraverso molteplici distillazioni; per la scultura un continuo sforzo per far affiorare il profondo alla superficie. L’energia libidica preme per essere trasformata. Il mio lavoro mi aiuta a cercare, mi fa vedere la differenza tra pulsioni di segni diversi su un oggetto/ostacolo; un esercizio che colma la durata del mio tempo.”
Quanta scienza c’è nell’arte? Ma i veri alchimisti sono sempre rari.
Atanor, Rebis, Lapis philosophorum. Bastano alcuni di questi termini di questa misteriosa (e misterica) nomenclatura a creare quell’alone di clandestinità leggermente arcana che è in parte alla base dell’attuale reviviscenza d’interesse per l’alchimia. Nell’impossibilità di addentrarmi, qui, nei meandri dell’Ars Magna, di approfondirne, secondo gli antichi cerimoniali occulti o secondo i recenti studi critici, il significato recondito ritengo che già solo la risonanza delle espressioni che segnarono le fasi della Grande Opera – Nigredo, Rubedo, Xantosi, Albedo – possa avvicinarci al significato della loro natura. E, del resto, basta inoltrarsi nella sala della mostra dedicata alla rassegna storica dell’alchimia (a cura di Mino Gabriele) e osservare gli strepitosi manoscritti, gli antichi testi illustrati, le incisioni, per rendersi conto dell’incredibile ricchezza di questa ricerca e per avere almeno una pallida idea di quale immenso patrimonio culturale, simbolico, artistico sia alla base di questa vetusta dottrina. Una tematica, dunque, era ottima (molto più di quanto non lo fosse quella dell’intera Biennale: «Arte e scienza») e nessuno meglio di Arturo Schwarz – che da anni s’interessa con passione a questi problemi – poteva affrontarla. Né mancano in questa marea di opere (circa 400, ma sembra che ne fossero progettate addirittura 2000 !) molti capolavori. Basterebbe citare – tra le moltissime altre – le opere di Max Ernst, di Dalì, Kandinskij, Rops, Arp, Martini, Brancusi. Quello che fa difetto, purtroppo, è la misura e il giudizio assiologico. Perché questa marea di artisti spesso mediocri? Perché questa dilatazione fuori da ogni misura del concetto stesso di alchimia? Certo, come sostiene lo stesso Schwarz, molti artisti creano opere riconducibili a schemi alchemici anche senza esserne coscienti; ma non basta un uovo o un alambicco a «fare» l’opera alchemica; non basta un vago riferimento rosacrusiano o un ancor più labile contrappunto tra mascolino e femminino, un richiamo uterino, una analogia con le Nozze Chimiche, o con la Coniunctio Oppositorum, a trasformare un banale dipinto in un lavoro degno d’essere esposto. Non solo, ma non basta neppure il riferimento a qualche simbologia numerica o alfabetica o a qualche cromatismo riportabile alle fasi dell’Opus Magnum, per individuare l’effettiva rispondenza d’un’opera con le prerogative alchemiche. Se la mostra – così opportunamente ideata e così «inedita» – fosse stata ristretta ai pochi nomi veramente legati alla dottrina, sia per loro effettiva dipendenza (come nel caso di Duchamp, di Rops, di Seligmann, di Lebel, ecc.), sia per loro inconsapevole affinità; ma sempre a patto d’un loro indiscutibile «valore» artistico la mostra avrebbe potuto essere una delle più geniali e affascinanti di molte recenti Biennali. Purtroppo così non è stato; o lo è stato solo in parte. E non può non dispiacere dato che, una volta tanto, un «ente pubblico» (e do atto all’at- tenzione che Maurizio Calvesi ha, da sempre, rivolto a questo tema) si era convinto ad accettare la presentazio- ne dei reperti di una disciplina così eterodossa e tutt’oggi «ermetica» (non solo in senso metaforico). Ma possiamo accettare che di Alchimia si ragioni anche per opere riconducibili soltanto a una matrice surrealista o dadaista? O per una vaga risonanza simbologica? Se alcuni tra gli artisti contemporanei invitati hanno effettivamente carpito – consapevolmente o meno – i messaggi alchemici (e ricordo, ad esempio; Jasper Johns, André Mas- son, Enrico Donati, Claudio Costa, Maurice Henry, Victor Brauner, Alfonso Ossorio, Amalia Del Ponte, Mimmo Paladino, e naturalmente, e tra i più «specifici», Luca Patella), quanti altri hanno inalberato simbologie fasulle. Non basta, insomma, tener conto della importanza di una divisione quaternaria nell’opera alchemica per affermare che la ternarietà di Nigredo Rubedo Albedo può aver isolato a un certo punto la xantosi (la fase «al giallo») permettendo la presenza d’un dipinto tutto di questo colore; o tutto dorato, a ricordo d’un raggiunto lapis philosophorum. L’appunto maggiore che mi pare di dover rivolgere a questa (come del resto a molte altre sezioni della Biennale) è proprio il seguente: si tenga maggior conto dell’aspetto assiologico – dell’intrinseco valore di pittura e scultura – e non si faccia soccombere a un determinato tema, per originale che sia o possa essere, l’effettiva valutazione di un’opera d’arte. Se la sezione dell’Alchimia ha l’inconveniente dell’eccessiva ampiezza, un’altra sezione – quella delle Wunder kammem -, (ammirevolmente curata da Adalgisa Lugli che già ci aveva offerto un ottimo studio su questo argomento nel libro Naturalia et Mirabilia Mazzotta, 1983), non solo è aderente al tema (a un tema, per l’appunto «meraviglioso»), ma lo è con castigatezza e moderazione; anche se, pure qui, esistono alcuni eccessivi sconfinamenti, come quello, ad esempio del «trofeo» arboreo di Penone. Il fatto di idolatrare, non solo l’unicum, il capolavoro, ma l’assemblaggio e il collezionamento di opere varie magari di scarso valore, ma che insieme costituiscono una «globalità estetica», mi sembra il vero nocciolo della costituzione sia delle Wunder-kammem antiche (come quelle sei-settecentesche, o come i dipinti di Arcimboldi) sia di quelle contemporanee come quelle di Schwitters, di Meret Oppenheim, di Man Ray’, di Requichot, di Parmigiani, di Kolar, ecc. La ricerca, dunque, di una sorta di collezionismo dell’improprio, di estetizzazione del quotidiano, di captazione del meraviglioso (la radice di mandragora che diventa antropomorfa o la pietra paesina che si trasforma in paesaggio), mi sembra un’operazione che meritava di essere segnalata e che fa sperare in una possibile, anche futura, capacità dell’uomo di stupirsi di fronte ai messaggi della natura e dell’arte.
Gillo Dorfles
Nel labirinto dell’invenzione
“No. Non è la Praga del Golem o di Gustav Meyrink lo sfondo sul quale un’inedita messa in scena di dipinti, disegni e sculture, ispirati all’universo chimico ed esoterico ha affollato Venezia.
Nell’ambito della quarantaduesima biennale, diretta da Maurizio Calvesi e da lui dedicata a dibattere il tema «Arte e Scienza», Arturo Schwarz, che da più di trent’anni studia le varie fasi del pensiero alchemico, ha realizzato la prima grande esposizione internazionale, intitolata appunto Arte e Alchimia.
E qui torna opportuno citare Giulio Carlo Argan che, in una recente intervista su Alfabeta, sostiene: «Una disciplina morta è una disciplina che ha perduto i contatti col sistema culturale in atto. Non è che con questo scompare dalla nostra coscienza o, più ancora, dal nostro inconscio.
Credo che tra arte e alchimia un’analogia esista perché indubbiamente alchimia è il tipico caso della scienza che muore per taglio dei collegamenti con le altre discipline del sistema culturale. Siccome l’alchimia materializza il processo di trascendenza, cioè il processo per cui tutto ciò che è nel mondo tende a sublimarsi nel divino, quando la cultura del tempo ha rinunciato a queste finalità, ecco che l’alchimia è precipitata, è diventata una scienza morta.
Si potrebbe dire che una scienza morta cessa di essere viva, ma non cessa di essere scienza.
Una ricerca e una mostra di arti visive e alchimia è dunque impresa da far tremare i polsi. Ben per questo Arturo Schwarz, eterno duellante, vi si cimenta. I risultati di questa impresa, a volte temeraria a volte coraggiosa hanno il fascino sottile e irritante che accompagna ogni viaggio di tipo iniziatico. Passare da un’opera all’altra (lungo l’arco di ottanta anni e più), è come una lunga allucinazione attorno ad una chimera che appare e si dissolve; si entra e si esce dai canoni dell’arte per seguire il labirinto delle invenzioni di Salvador Dalì o di Man Ray, di Duchamp o di Rene Magritte o di Max Ernst, di Rita Kernn Larsen o di Jindrich Styrsky; per avventurarsi con Luca Patella o Amalia Del Ponte, con Claudio Costa o Laura Grisi, con Alison Wilding o Antony Gormely attraverso la scoperta di sé e del mondo. Il sapere che l’essere umano può acquisire intorno al sé, passa attraverso una pittura ricca di episodi, doviziosa di simboli, il cui senso recondito, intuibile nella filigrana di una realtà deformata e spesso del tutto fantastica, potrebbe essere un’esorcizzazione della morte e un’esaltazione della vita.
Lea Vergine