1994
a cura di Annarosa Baratta
comitato scientifico: Eleonora Fiorani, Francesco Leonetti, Anne Marie Sauzeau Boetti, Lea Vergine
opere esposte: Tensione, Tropismi, Sessantotto, bozzetto, Scultura lingua morta,
1994
a cura di Annarosa Baratta
comitato scientifico: Eleonora Fiorani, Francesco Leonetti, Anne Marie Sauzeau Boetti, Lea Vergine
opere esposte: Tensione, Tropismi, Sessantotto, bozzetto, Scultura lingua morta,
Dal cuore della pietra il suono racconta
“Fa dell’understatement il suo stile, Amalia Del Ponte, pur “arrivando all’appuntamento elegantissima con la vita”, come ha scritto per lei Francesco Leonetti. Il suo viso bello e chiaro, la voce giovane, questo suo modo appena un poco svagato (come se altra fosse la sostanza della vita cui è intenta, pur mentre ti parla e si accorda, precisa e pacata) da subito ti danno una sensazione di armonia quella stessa che persegue nelle cose, che ci rende nelle sue ‘pietre sonore’, che insegue probabilmente nella vita se badiamo ai suoi viaggi in Oriente o alla semplicità spoglia ed essenziale dell’ambiente intorno a lei: che si tratti delle stanze monacali in cui vive o del laboratorio ‘artigiano’ in cui lavora, con la bella colonna medioevale rimessa a vista, i muri a calce, il pavimento in cemento: tutto del grigio della polvere di marmo, rosso solo il compressore sotto le lastre ‘intonate’, che cavetti d’acciaio sospendono alla traversina di ferro, al soffitto. Pensano, le mani di A. Del Ponte, cercano nell’opacità ruvida della pietra, nella sua staticità, la lucentezza del suono, il movimento risonante. Cercano, attraverso la forma, le corrispondenze armoniche delle scale musicali e cromatiche, per cui le lastre, i litofoni dicono anche altro dalla forma, segni di una ‘interiorità’ della materia, espressioni di una ‘simpatia’ cosmica. E la macina di pietra esposta in mostra ripete l’omphalos del mondo antico e orientale: che si riteneva occupasse il centro della terra, ombelico del mondo, segno di nascita. La nascita è tema della Del Ponte, è stata altra sua direzione di ricerca, testimoniata in mostra da quelle operazioni concettuali degli anni ’70 che sono l’allevamento dei cristalli e la documentazione a ritroso del percorso di crescita della figlia bambina, la ‘mappa genetica’ di cui ha parlato Lea Vergine. Vita che si forma, scrutata nella tappe di tempi evolutivi incomparabili eppure analoghi, quasi a voler negare la distinzione tra mondo animato e inanimato, a cercare “l’ame aux corps” di qualsiasi corpo si tratti. E alla nascita rimanda ancora l’uovo (che allude a nascite insieme umane e cosmiche) di: Senza titolo, senza nome del ’78. Ma non c’è svaporatezza misticheggiante nel lavoro della Del Ponte, c’é piuttosto la lucidità di una riflessione che si esercita a partire dalla sua curiosità per le forme e gli ambiti diversi della conoscenza, quelli che lasciano spazio alla ragione e alla suggestione insieme. E’ la ‘speculazione intuitiva’ di cui scrive A. M. Sauzeau, la stessa di quando organizzava la scatola magica di: Musica da camera per sei strumenti, o di quando costruiva i Tropi, prismi di plexiglas, a catturare la luce e le forme per dare loro nuove direzioni e nuove declinazioni, “in un gioco di riflessioni che insieme nega e afferma” (E. Fiorani); anche allora tesa ad inseguire l’elemento dinamico, vitale, nel momento in cui confondeva il reale con l’illusorio, la ragione con l’immaginazione. Per cercare nel mondo delle leggi lo scarto della deroga, nell’attuale il vir tuale, in ciò che sta ciò che si muove, quella “volontà di forma” della materia che sfugge alla nostra volontà di potenza e cammina da sé: senza che i nostri occhi la vedano e le nostre orecchie la intendano. Saranno presenti all’inaugurazione Eleonora Fiorani, Francesco Leonetti Anne Marie Sauzeau Boetti che, con Lea Vergine, scrivono in catalogo.”
Annarosa Baratta
Presentazione della mostra
II rapporto tra il visibile e l’invisibile che sta all’origine del lavoro di Amalia, la dualità del sonoro e del visivo, o ancora la dimensione plastica (apollinea) e la dimensione sonora: questa dualità è abbastanza rara nel fare artistico.
Lo stesso avviene tra il suono e la tentazione del silenzio: le prime sculture di Amalia – i prismi (cioè i suoi tropi) e le lastre di cemento o ferro – proponevano un assoluto silenzio, mentre le ultime lastre propongono il suono.
Questo rapporto tra il visibile e l’invisibile, o tra il suono e il silenzio, testimonia di una grande continuità nel lavoro di Amalia; anche gli ultimi suoi lavori raggiungono la loro massima espressività quando vengono suonati da percussionisti, e intanto ci invitano a riflettere a posteriori sul potenziale sonoro presente anche nelle prime sculture…
In effetti mi è venuto in mente stasera, qui: quando siamo davanti alle lastre di pietra, le ultime, in silenzio, possiamo immaginare che anche le prime opere – quelle ottiche – potrebbero suonare! Forse tutta la materia ha un potenziale sonoro e tutta l’opera di Amalia in realtà ci richiama al silenzio sì, alla contemplazione, ma con l’indicazione che se fossimo più attenti… avvertiremmo che tutta questa materia si muove ed emette un suono. Un artista può cogliere per noi una possibile comunione con un rumore, con un movimento cosmico, non percepibili fintanto che qualcuno non riesce a tirarli fuori. Vedendo queste ultime cose ho capito che tutta la mostra di Amalia, possiamo vederla o silenziosa o … sonora.
Vi leggo un mio brevissimo paragrafo dal catalogo a pagina 28: “Se la pietra ha memoria atavica e cresce nella sua più segreta struttura, se inoltre accumula una memoria circostanziale, accidentale, geologica, quella che è più facilmente leggibile nelle cicatrici lasciate dai tanti cataclismi della storia terrestre, ebbene, qualsiasi blocco di pietra – non solo l’affascinante geode – ha molti misteri da rivelare, da raccontare”.
Non solo quella specie di “lampi” visivi che vedete emergere qui dalla pietra e che corrispondono al suono che ne verrà fuori, ma anche le “onde marine” che Amalia ha fatto emergere da altre pietre (nella bella mostra milanese) corrispondono sempre a dei suoni.
Ed è bellissimo ascoltare questo concerto, anche in silenzio… una volta che abbiamo capito l’intenzione.”
Anne Marie Sauzeau Boetti
Forme, concetti, suoni
“Amalia Del Ponte, che dagli anni Sessanta conduce una propria solitaria e originale ricerca nella scultura, è sempre diversa, quindi ogni volta ci stupisce e ci sorprende; e ogni incontro con lei è scoperta di nuovi modi in cui le strutture profonde della materia possono essere sondate e prendere forma. Siamo introdotti, attraverso la visione, alla materia come luce, come energia: ai tanti modi in cui un oggetto può essere percepito. E ciò ci incanta e certo anche ci destabilizza e ci inquieta. I litofoni, le pietre sonore, sono l’oggetto della sua attuale ricerca, iniziata nell’85. Con essi è tornata a intagliare forme perfette nella pietra. Persino a parlare il linguaggio antico del marmo; e però non ricerca la sua morbida purezza ne la sua lucentezza dolce (Hegel), ma i rapporti che intercorrono tra la forma e il suono. I suoi litofoni sono forme-suono, che rimandano al di là del visibile a ritrovare l’invisibile delle corris- pondenze che collegano le forme geometriche con la loro misura alle scale musicali e a quelle dei colori. Il suono materializza questa corrispondenza. Ordine e armonia: i litofoni sono forme geometriche: rettangolari, rotonde, lunate. Prevalgono le grandi lastre, che conviene innanzitutto descrivere: sono parietali e staccate dalle pareti, per essere ‘percosse’ a rintocco sul davanti e nel verso. Non sono bassorilievi, ma sculture con graffiti, prevalentemente su serpentino delle Alpi, o rettangoli di marmo di Carrara,o lastre di travertino più recentemente, in una mostra romana, con riferimento memoriale alla pietra locale: esaltano la perturbazione cosmica, il macromovimento sonoro-visivo. Quello stesso che troviamo presente nella nuova immagine della materia con le sue turbolenze che ci dà Prigogine. O il soffio universalistico astratto. E dunque le forme-suono stanno davanti a noi nella loro consistenza, ma la loro forma di perfetta misura e le suggestioni che ci vengono dai graffiti ne fanno tutt’insieme il punto di partenza di una tabulazione in cui fuoruscire da sé per ritrovarsi in una narrazione cosmica. Esse stesse inducono a una visione sonora nell’immaginario. La materia è energia in cui si originano e si sviluppano le cose e i mondi; e il pensiero cerca e immagina nascoste armonie e corrispondenze. L’artista ritrova la qualità sonora della materia, presente nei miti e negli immaginari delle culture antiche e ‘altre’. E, con atteggiamento caratteristico dell’avanguardia, accosta la grammatica della musica e la grammatica della struttura della materia: cerca le corrispondenze tra onde sonore e onde luminose, opera sui fattori fisici che presiedono all’organizzazione delle forme e del suono nella sua purezza di vibrazione e energia. Il suono rompe la pietrificazione del mondo: le onde dilatano la materia nello spazio e introducono il tempo: la ricerca sulle forme si incontra con quella sulla struttura dei suoni in una liberazione della materia dall’inerzia, che restituisce alla materia la sua voce, il suo ritmo interiore, la sua temporalità. La natura sonora della forma particolare di pietra rivela il proprio timbro e voce quando viene percossa. E allora l’universo ci appare (o ci illude) come costituito da proporzioni armoniche, come «vivente che danza con leggi musicali» (Marsilio Ficino). L’artista è dunque portatrice di una concezione ‘sinestetica’ dell’arte: instaura un rapporto biunivoco fra visivo e auditivo, e anche tattile, tendendo ad estendersi a tutti i sensi in accordo; e, come abbiamo detto, vuole convocare su ciò (con gusto duchampiano) straordinari riferimenti alle civiltà altre (orientali e arcaiche) e anche presocratiche e rinascimentali. E’ suggestivo tale rinvio, mentre la motivazione è schiettamente novecentesca nel senso appunto ‘cinestetico’ delle avanguardie (secondo le stesse famose ‘corrispondenze’ baudelairiane, con qualche tecnica allegorica presentata come ‘metafisica’). Del resto per il buddismo anche la mente è un ‘ senso’. I graffiti alludono a complessi ordini simbolici, mentre certo valgono per sé con propria suggestione formale. Materializzano e annunciano l’invisibile. Il cono dritto sormontato da un cono rovesciato o – il doppio tamburo o crogiuolo – rimanda a un’immagine-simbolo antichissima dell’universo, che «prende a modello il cielo e come figura la terra. Li cerca ripiegandosi su se stesso », così dice un testo antico. Traspaiono nei graffiti inquietanti concrezioni, presenze fossili, memorie, tracce che ci spostano da una zona limitata del tempo alla serie infinita delle strutture e dei viventi. Sono valori archetipici che alludono agli elementi: aria, acqua, fuoco e terra, e ai loro movimenti, vibrazioni e sonorità: ci avviano alla visione sonora. I litofoni sono anche disposti a serie, come dei polilitici, con le loro diverse misure, a quattro o a sette note. Straordinaria e di grande intensità espressionista l’ultima versione di un polilitico Acqua nell’acqua a quattro lastre attraversate da una grande onda a scroscio. I litofoni vogliono essere suonati e diventano allora il centro di un evento, di un incontro tra due espressioni artistiche, con grande suggestione, mentre certo anche ci restituiscono in tutta la sua complessità il rapporto dell’uomo con la pietra, la prima materia del mondo. Il percorso di ricerca Gli inizi sono importanti: i suoi sono con Marino Marini, da cui apprende oltre alla sapienza della lavorazione dei materiali anche il gusto per il carattere artigianale della scultura, che resta una sua caratteristica importante. Ma ciò che la muove è l’esigenza di andare oltre la scultura (diventata, secondo Arturo Martini «lingua morta», quindi da ritrovare in forme nuove). I suoi riferimenti si muovono in direzione di Klee e dei costruttivisti russi come Gabo, Pevsner, Moholy-Nagy. E caratteristica di questo periodo la lavorazione del gesso, che la affascina per la sua malleabilità. Troviamo una spazialità e un costruttivismo originale, fin dall’inizio, per l’intenzione destabilizzante e straniante che li caratterizza. I blocchi in marmo e in bronzo costituiscono l’avvio di una ricerca che rompe la staticità della forma e avvia alle strutture interne e profonde della materia. I bozzetti, che sono opere compiute in se stesse, mostrano appunto la frantumazione dell’unicità formale Se esaminiamo il bozzetto di marmo Nero del Belgio, vediamo che esso è il risultato dell’incontro di due forme che non si incastrano perfettamente, dando luogo a uno scarto, a una piegatura, a un incavo ampio, che gli conferisce un’insolita andatura di movimento, mentre anche suggerisce un che di incompiuto e di volto all’interno, apre uno spazio di vuoto. In quello di bronzo, si infittiscono le forme che si incontrano in modo dissimmetrico: gli spigoli acuti, nervosi creano nella materia una sequenza di falle e di oscure zone interne. Una ricerca del vuoto, dunque, anziché del pieno, del dentro anziché del fuori, del discontinuo anziché del continuo, del dissimmetrico anziché del simmetrico. I prismi o Tropi (1965-72) sono l’opera giovanile fondamentale. Corpi trasparenti «lente e schermo nello stesso tempo» così li ha definiti Vittorio Fagone (1967), osservando anche come il «fare» dell’artista opera «sulla straordinaria potenzialità ottica della materia stessa con un’operazione … di ‘trasformazione formale’, dentro i confini di un linguaggio formale». I Tropi sono solidi elementari, forme o ‘strutture primarie’, si è detto, perfette geometrie con intento espressivo. Identici e differenti, mutano sotto il nostro sguardo e destabilizzano l’ambiente in cui sono immersi. O, se si vuole, creano «ambienti dove un oggetto plastico agisce da elemento animatore con il concorso della luce». (G. Dorfles). Ne risulta una sorta di impatto «sul filo teso della simmetria» (V. Fagone), un’evidenziazione ostinata e iterativa della geometria del mondo fisico: il cui risultato è un’inquietante e ambivalente destabilizzazione dell’oggetto stesso e dell’ambiente; in quanto «il gioco razionale» predisposto dagli spigoli e dai piani rigorosamente calcolati risulta «senza compimenti»: un gioco di riflessioni che insieme nega e afferma. La lettura di Fagone insiste sulla immaterialità: nell’immissione in uno spazio artificiale, o in uno spazio interno, con una sorta di negativo del mondo reale. Ma certamente l’opera ha una presenza fisica netta e supplementare, allargante con la rifrazione; non produce alcun azzeramento. Il termine tropi, è di Vittorio Fagone, che presenta la mostra del ’67, da intendersi in intensione ed estensione. Val la pena di ricordare la vasta gamma semantica della parola tropos di origine indoeuropea che indica movimento e trasformazione insieme, il volgersi verso, e muta di significato le parole a cui viene unita. E dunque una parola insieme della differenza e della messa in relazione. Il carattere ambivalente dei tropi viene per Anne Marie Sauzeau dalla «virtualità» del loro corpo, dal loro essere «un luogo direzionale, una posizione di rimando ad altro (come la metafora)». Sono presenze che mettono in questione l’idea stessa di scultura, ne danno un altro modo d’essere rovesciandone i termini. Ma sono anche degli evidenziatori che modificano, frangono e moltiplicano l’ambiente in cui sono inseriti. C’è la sperimentazione e l’utilizzo di materiali tecnologici nuovi, come il plexiglas, che viene fuso a formare i prismi fino a due metri di altezza. E ciò vale insieme come inserimento, in contraddizione e urto, nella nuova società tecnologica: con idea di appropriazione umanizzante di queste nuove resine che invadono la nostra vita. E con quella anche, strutturando dei multipli, di arte per tutti. Una «scultura-assenza» certo, come pare alla Sauzeau, ma anche, a mio parere, l’emergere di un’idea ‘metafisica’, leibniziana, per cui i punti sono centri inestesi di forza e di attività e le misure esprimono le cose stesse. La realtà di una cosa si da allo sguardo solo attraverso gli infiniti profili che offre all’osservatore, così la realtà del mondo non è qualcosa che sussista in sé, ma si risolve nelle infinite e inesauribili prospettive che si offrono ad essa. E lei dà dei Tropi anche una realizzazione del tutto immaginaria, tracciandoli semplicemente al suolo con fili metallici e facendo apparire sulle pareti le loro altrettanto virtuali proiezioni. Nella Biennale di San Paolo (1973) crea una vera e propria area percettiva costruendo una stanza senza angoli a 90° che annulla la visione prospettica e muta profondamente la percezione. E, come sappiamo, dopo Maurice Merleau Ponty, la percezione è donazione di senso al mondo: attraverso l’arte il pensiero può collocarsi su un terreno originario in cui il mondo e il nostro corpo fanno tutt’uno. Una seconda serie di opere, che segue subito dopo la serie dei Tropi, è prodotta dall’accostamento di solidi trsparenti a blocchi di cemento o a lastre di ferro. Qui la capacità di riflessione della luce dell’ambiente da parte dei tropi, la loro capacità inglobante e di messa in relazione è ‘ controllata’ dalle masse opache, o meglio è mirata dentro di esse. Ciò crea certo una strana contaminazione tra l’opaco e il ruvido e il trasparente, ma soprattutto dà vita a un’apertura fantasmatica dentro la materia, in un’illusoria entrata all’interno. E, come dice Guido Ballo (1972), «suggeriscono l’idea di un ritmo primario che si allarga allo spazio circostante: non soltanto per il richiamo dei piani strutturati con l’apertura verso l’ambiente, ma per il colore degli incastri materici». E a me sembra che in queste opere la tendenza plastica forte dell’artista assorba la fenomenologia delle avanguardie degli anni Settanta in un gioco di rifrazione e mobilità. La visività allucinogena tende già qui ad altri sensi. C’è, come ha scritto Gillo Dorfles, «l’acuto interesse per l’aspetto oggettuale della visualità sia nel senso di costruire l’oggetto singolo che nel rapporto dello stesso con lo spazio ambientale». Un prisma posto su un cavalletto, puntato su un ritaglio di giornale con l’immagine di Curcio, un frammento drammaticissimo di vita di lui e di tutti noi, volge l’invenzione sulla visione e sulla luce a serrata indagine del particolare: lo trae dalla totalità annichilente. Vedere è il titolo di quest’opera già concettuale, che viene presentata alla Biennale di Milano del ’72: segna il distacco da questa fase che chiude sulla fecalizzazione dei dettagli, sui ribaltamenti delle immagini, sulla creazione pura di spazi virtuali. Val la pena di rilevare che, curiosa- mente, la parola tropos ha anche un significato musicale. E, nella musica greca, il tono, la nota alla base del sistema massimo nelle sue trasformazioni e, in quella medioevale, è la formula melodica che non sempre percorre l’intera ottava. Operazione concettuale è l’installaziolazione del ’77: su un antico tappeto persiano sono accostati due testi: un album di fotografie datate 68-76 (registrazione per immagini dei primi otto anni della figlia) da una parte e dall’altra due immagini di altri mondi: una tavola botanica del Seicento con fiore e ovari, e scritta a nastro «eiusdem floris et vaginae magnitudo» e un foglio monco con segni di una lingua sconosciuta, un fragile, misterioso momento di vita indecifrata. La propria esperienza della maternità viene accostata, lucidamente, alle altre forme della generazione e della crescita, e ai modi diversi di pensarla per interrogarsi e interrogare. C’è innanzitutto la vita a due, di madre e figlia, su cui Lea Vergine (1977) ha detto: «è una mappa genetica, evolutiva, la trepida e acuta ricerca fatta da Amalia Del Ponte sul rapporto madre-figlia». Un albo è una mappa, la «cronaca di otto anni di vita in comune, la storia di una dualità, di una coppia di entità tra le quali intercorre una relazione essenziale per entrambe, una topografia particolareggiata (la mappa appunto) di un territorio non troppo vasto. Nulla sfugge tra madre e figlia, tutto viene registrato e talvolta trasfigurato, e si forma come un campo magnetico ricco di impulsi aggressivi e amorosi». Certo c’è qui un vissuto intimo, tenero e drammatico insieme, eppure esso viene anche trasceso e rimanda ad altri significati con la simbologia numerica (l’otto è l’infinito, l’eterno) e con l’accostamento, fìore-seme-vagina ad un altro modo d’essere e di pensare, a un naturale primario: sapere alchemico e sapere scientifico sono qui accostati in polarità antagoniste per Anne Marie Sauzeau. La Del Ponte subisce il fascino delle mappe, che ben si incontrano con la forte caratterizzazione mentale del suo operare. Con esse pensiamo e incaselliamo il mondo, ma anche lo creiamo e lo immaginiamo. Pensiero e visione stanno insieme in infiniti giochi. Le mappe sono, come lei dice «immagini di percorsi mentali» non del soggetto singolo, ma dell’esperienza di ciascuno di noi. E certo aprono anche sull’esperienza del femminile e del quotidiano, lucidamente. La femminilità è esperienza del mondo o più semplicemente il proprio-modo di esperire il mondo? O tutte e due insieme? Un cristallo, due fili di rame, una mano di gesso, un piedestallo: Amalia comincia l’allevamento dei cristalli, immersi nelle loro specifiche soluzioni. Avvia un altro modo di sondare la struttura profonda della materia, o della natura, la sua intelligenza, la sua ambiguità: vuole mettere in questione la distinzione tra il vivo e l’inerte, tra l’organico e l’inorganico, il mentale e il corporeo. «Qui la processualità tempera i propri materiali in un’altra più magica e allusiva, quella dell’alchimia, che tende a cogliere l’intelligenza della materia», così dice Achille Bonito Oliva (1978). E’ profondo e autentico l’interesse per l’alchimia, che vede anche nel ’86 la sua partecipazione su questo tema alla Biennale veneziana con un’opera del ’79, Uroboros, in cui appare il drago-serpente dell’idea circolare del tempo. L’alchimia, come si sa, è anche percorso della trasmutazione dell’interiorità. E’ un altro modo di pensare il mondo e di sentirsi in comunicazione con esso; è un deposito straordinario di simboli, di archetipi che non solo l’arte, ma la scienza stessa tornano periodicamente a rivisitare. Una minutissima, perfetta perla a forma di uovo, Senza titolo, senza nome (1978) posta su una colonna ad altezza d’uomo è ancora un proce- dere allegorico, che rimanda ad altro. Ma c’è anche un’ essenzializzazione mentale che investe i materiali. L’uso di materiali antiedonistici e fragili, ci rimanda ad aspetti dell’arte giapponese definiti sabi o wabi. A rompere il troppo pieno e il continuo e a ricercare il vuoto, che non è il nulla o l’assenza. Musica da camera per sei strumenti – esposta a New York nel 1980 – inaugura la forte corrispondenza visivo-auditiva (con percezione dilatata) che si basa sul suggerimento dell’aspetto ‘ solo formale’ delle custodie. L’opera è nettamente concettuale. Francesco Leonetti (1980) ne ha dato un’ accurata e puntuale descrizione. La peculiarità dell’invenzione artistica di Amalia Del Ponte che contamina materiali e concetti sta proprio nel voler coinvolgere tutti i sensi con la molteplicità dei materiali stessi, legno, alabastro, veleno, materia cerebrale. Concludendo, è anche singolare la irregolarità stilistica: non c’è un percorso, un linguaggio solo, ma più-modi di formare anche all’interno di uno stesso periodo. Questa operazione (già duchampiana) è delle avanguardie e dell’arte povera, non è postmoderna: perché non si da mai eclettismo, ma resta forte la rigorizzazione formale astratta. Ed è forte e coerente il filo interiore, mentale che percorre la pluralità delle linee di indagine, che lei stessa esplicita, opera per opera, con dichiarazioni di poetica, ed anche in due libri: Atlante (1978) e La forma del suono (1993), dove pensiero concettuale e pensiero visivo stanno l’uno accanto all’altro.”
Eleonora Fiorani
“Ad un catalogo così fitto di scritti non c’è ragione di aggiungere nulla, e da parte mia semmai un interrogativo ancora: questo rapporto che Amalia Del Ponte pone tra la sua arte così rigorosa che è nello stesso tempo molto plastica e molto azzerante che ci intriga un po’ anche perché la tradizione dell’arte della scultura è meno frequentata dalle menti e dalle sensibilità delle donne, quindi ci troviamo di fronte ad un caso singolarissimo di ricerca d’avanguardia ormai molto solida nel tempo, però lascia degli interrogativi. Questo interrogativo è il rapporto che lei pone continua- mente tra scultura e musica. E se ne discute, se ne traggono motivi di riferimento; senza dubbio si tratta di un rapporto fondamentalmente sinestetico, vale a dire tra due diversi sensi, la vista e l’udito, per aggiungere qualche cosa a ciò che questo rapporto istituito costantemente, direi quasi con una sorta di provocazione continua della ricerca di Amalia, mi è venuto in mente che noi possiamo aggiungere un altro riferimento e per esempio a p. 37 del catalogo, c’è l’immagine di un’opera complessiva di piu elementi. “Acqua nell’acqua” che abbiamo visto nella Galleria di Valeria Belvedere a Milano, che invece qui per motivi tecnici non è presente. Ecco, in questa opera la visione auditiva, cioè l’elemento sinestetico è evidentissimo: è questo scroscio d’onde fortissimo, visivamente, e quindi raccoglie insieme la visione e l’attenzione diventa una visione auditiva, senti come il rumore di questo movimento di onde nello spazio. Invece, ciò che abbiamo ascoltato stasera, come in altre occasioni, è piuttosto un’ interazione, sono due arti, l’arte visiva per eccellenza e la musica, la scultura e la musica che interagiscono e c’è un testo musicale aggiunto, quindi un’interazione tra due arti. Naturalmente le sculture di Amalia in questo caso nell’interazione sono disponibili, si prestano hanno una materia, una qualità, una dimensionalità che permette, sviluppa il loro diventare non direi strumenti, il loro diventare organi per questo suono che può essere gioioso, rituale, come si vuole; ecco però secondo me c’è un altro problema che ancora non avevo detto. Quindi semplicemente aggiungo dell’amicizia con i presenti in questa osservazione. II rapporto scultura musica è nella nostra tradizione teorica molto fortemente un rapporto di contraddizione che si unisce, infatti è posto per primo da Nietzsche nella sua opera fondamentale del 1872, con rifemento ai Greci arcaici, traendolo anche dalla cultura orientale che gli veniva da Schopenhauer, come rapporto tra l’apollineo, che vuol dire indubbiamente il sogno, e il dionisiaco che vuol dire indubbiamente il lato oscuro, allora io l’interrogativo che mi faccio è secondo la tradi- zione nicciana: che attraversa tutte le avanguardie direi quasi più di quella freudiana e fondamentale dall’espressionismo in poi, che vuole acquisire parità tra l’arte e la musica; mentre questa parità in Schopenlauer non c’è, in Nietzsche sì, questo è un punto delle avanguardie. Mi accorgo che in fondo Amalia tende a preferire la musica alla scultura e siccome la scultura è l’apollineo, il sogno, e la musica è il dionisiaco cioè il nostro lato oscuro. profondo, probabilmente c’è un suo tentativo, si intende che in Nietzsche, siccome ha preso tutte le avanguardie, i due elementi contrari, la scultura plastica, apollinea e la musica profonda dionisiaca devono unirsi, devono stare insieme, però nell’opera visiva sono unite come sono unite nell’opera musicale, vale a dire due elementi che sono di ogni uomo, nell’arte si fondono come si fondono nella musica. Perché insiste molto nel valorizzare la musica, tanto è vero che in questa p. 37 è solo mostrata di scorcio quest’opera che ha duplice valore visivo e uditivo e tutto visivo però e perché ce la fa vedere solo di scorcio, mentre invece le interessa così profondamente la musica? Evidentemente indaga nell’elemento dionisiaco e… un modo di proporlo e forse giusto nella ricerca… (non si capiscono le ultimissime parole).”
Francesco Leonetti
Già nel 1965, con le strutture di plexiglas-prismi trasparenti a contatto con il cemento o il ferro, Amalia Del Ponte lavorava sui fenomeni ottici, energici… Curioso progetto quello di virtualizzare la fisicità materica di un oggetto, o meglio, di farne scaturire un’altra fisicità: quella dematerializzata e mobile dell’energia stessa, che sia sotto forma di luce, d’arcobaleno, calore, onda elettrica, facoltà memorativa o vibrazione sonora (mi riferisco qui a vari aspetti della produzione dell’artista). Amalia Del Ponte nutre una bachelardiana curiosità verso tutti i saperi scientifici, dai più positivisti ai più mistici, dai più arcaici ai più fantascientifici. Con straordinario agio, attinge in particolare alle teorie di mineralogia sulla struttura dei cristalli, come a quelle più sorprendenti della biologia su quei sistemi di cristalli liquidi che ad esempio sono alla base della materia cerebrale. E affascinata Amalia dall’ipotesi paradossale che, essendo la differenza tra le stalattiti alla volta delle grotte e il cervello umano fatta soltanto di un minor o maggior grado di organizzazione e specializzazione informativa dei reticoli atomici, al regno minerale non sia precluso l’accesso all’intelligenza, in tempi futuri e infinitamente improbabili. Pertanto, di questa «intelligenza siderale dei cristalli» esiste una discreta anticipazione, prodotta dall’uomo, nei calcolatori elettronici della terza generazione, in cui «pensano» dei cristalli artificialmente associati… Amalia ha allenato il proprio cervello a questo tipo di speculazione intuitiva, ha dilatato la propria coscienza, nell’uguale frequentazione delle moderne teorie scientifiche e le ricerche mnemoniche di Giordano Bruno. Con uguale passione e senso dell’attualità. Alla radice della struttura della materia (per quanto riguarda la memoria dei suoi codici di moltiplicazione o i suoi avatar tra necessità e caso, tra ripetizione e salti mutativi) non c’è differenza sostanziale nello sviluppo della materia minerale (un cristallo), una vita biologica (il corpo di un bambino) o del pensiero. Così, attraverso la forma ciò che Amalia interroga è il nucleo della materia, il codice memorizzato della materia, il suo inconscio forse. E come fece Gaston Bachelard per le forme fluttuanti dell’aria, della terra, dell’acqua e del fuoco, da lui inseguite oltre le scienze esatte nell’immaginario poetico, così fa Amalia Del Ponte per quell’interregno che coinvolge il mondo minerale e il mondo cerebrale (tra sensi e coscienza). Interroga la memoria della materia, la spinta della materia alla crescita, l’energia sprigionata dalla materia: che sia modifica volumetrica o nella grana in superficie, oppure lampo luminoso, o flusso sonoro… Così venti anni fa, ha ‘allevato’ (e esibito nelle successive fasi della loro crescita) una serie di cristalli nella trasparenza dei loro vasi di col tura (o coltivazione), perfetti come diamanti, incuranti della manualità umana, determinati solamente dalla loro memoria chimica e da un idoneo ambiente liquido. La formazione spontanea e graduale dei cristalli ci ricorda che il regno minerale, e più in generale il regno dell’inerzia, possiede, contro tutte le apparenze del tempo umano, una segreta energia dinamica e una volontà di forma alla quale occorre soltanto un altro tempo. La materia cresce dunque, come il corpo del bambino se lo si nutre. Sempre negli anni ’70 Amalia espose, in un insieme di objets trouvés apparentemente eterogenei e un po’ esoterici, posati con sacralità su un tappeto in terra, la traccia di una diversissima crescita, secondo un tempo umano molto intimo e irripetibile, il tempo della vita. Era il diario della maternità, la crescita della piccola Nicol, sua figlia. Se la pietra ha memoria atavica e cresce nella sua più segreta struttura, se inoltre accumula una memoria circostanziale, accidentale, geologica, quella che è più facilmente leggibile nelle cicatrici lasciate dai tanti cataclismi della storia terrestre, ebbene, qualsiasi blocco di pietra non solo l’affascinante geode ha molti misteri da rivelare, da raccontare. Mi è capitato di visitare una cava di marmo, a Carrara, con Amalia. Era un primo gennaio, un freddo polare, l’aria cristallina che dà nitidezza a tutto, ai tratti, ai colori, ai rumori, al silenzio. Mi è parso di visitare un tempio, in compagnia del dovuto sacerdote. Senza bisogno di delucidazioni ho capito che, di fronte a una scogliera di marmo grezzo, si può leggere e ascoltare (perché ciò investe più ordini sensoriali), uno sconfinato racconto sulla trasformazione della materia nel corso del tempo, a livello micro e macroscopico. E la «narrazione cosmica» di cui ha scritto Eleonora Fiorani nel 1988, in occasione della prima esposizione delle «pietre sonore» dell’artista che da qualche tempo cercava la «forma del suono» nella pietra, la voce del marmo o del travertino. Al momento della percussione, il suono tenuto in serbo dalla lastra fuoriuscirà. Così si libera l’onda energetica, la vibrazione che si propaga come calore o luce, che si espande dall’universo chiuso all’universo aperto, al di là dei confini della nostra limitata percezione acustica. Il suono racconta questa propagazione dal cuore della pietra. L’energia di chi suona la pietra tenderà a sincronizzarsi su un ritmo immemoriale, armonioso e impersonale. L’impegno della scultrice è stato invece la ricerca delle proporzioni della lastra, per aggiustamenti graduali come nell’accordatura di uno strumento, affinchè uscisse la voce giusta. Poi la lettura e sottolineatura dei segnali sintomatici apparsi nella pietra, un potenziale che si tratta di coltivare, portare a termine, far fiorire in una narrazione visiva che verrà scandita dal suono della percussione, come dalla bassa armonica dell’organo: tra quei sintomi, l’allusione alla potenza del fulmine (e del tuono) nella scaglia bianca nel belmezzo della lastra grigia, o quel fruscio ritmico di onda marina accennato dalla superficie irregolare, o la traccia impercettibile di palpebre abbassate sull’invisibile, che appena fanno ondeggiare la superficie della lastra rosa. I suoni delle pietre sonore producono lunghi racconti primordiali, tra i quali l’origine del suono musicale e dell’impercettibile confine tra rumore e suono armonico; oppure l’origine delle baudelairiane ‘ corrispondenze’ sensoriali tra udito, vista, tocco, ecc.., quell’esperienza sovrapposta che Amalia chiama la «luce degli orecchi»; e soprattutto la narrazione di quegli esercizi meditativi, di fronte alla luce, alla montagna, alla poesia, alla musica, in cui una coscienza accetta di dilatarsi come un grande respiro e trova il diapason della comunione con le cose, nello stato fluido originario.”
Anne Marie Sauzeau Boetti