1967
Negozio in Galleria Passarella a Milano
intervista di Matteo Giacomelli
1967
Negozio in Galleria Passarella a Milano
intervista di Matteo Giacomelli
Amalia Del Ponte, Invito all’inaugurazione del negozio di Fiorucci, 1967
Vetrina e interni del Negozio nel 1967
“È poco più di cent’anni che sono andate in uso le “vetrine” dei negozi, da quando si potevano ottenere lastre di vetro abbastanza grandi da poter proteggere ed esporre la merce.
Quando nel 1967 feci il negozio Fiorucci in Galleria Passerella a Milano le lastre di vetro avevano raggiunto le dimensioni di un piano, così mi è stato possibile pensare che tutto lo spazio del negozio fosse “vetrina”.
Segnalai quel posto a Elio Fiorucci e fu subito scelto, insisteva che doveva essere un posto per giovanissimi.
Ormai siamo annoiati da negozi bianchi e spogli, ma allora non erano così.
Smantellato fino all’osso, al cemento, e fessurato il pavimento per intravvedere lo spazio che continuava sotto.
Fatto bianco compreso il pavimento, l’unico elemento posto nel bel mezzo fu una grande scala di ferro verniciata di un azzurro pervinca che portava alla parte soppalcata.
Un’altro aspetto che abbiamo voluto, e raggiunto era la sua trasformabilità.”
Amalia Del Ponte
“Deyan Sujic racconta l’evoluzione del rapporto tra moda e architettura attraverso il design degli spazi [da Adoöf Loos Vienna, a Norman Foster, Kawakubo ’83, V. Gregotti & P.Cerri, J.Pawson a N.Y., E.Sottsass, e altri] Il risultato tuttavia sembra un po’ debole, se confrontato alle innovazioni degli anni Sessanta: ad esempio quelle ideate da Fiorucci o da Biba”
in “Domus”, n° 858, 2003
Non è casuale che Fiorucci, dopo aver visto Gulp!! abbia cercato Amalia Del Ponte e si sia presentato nel suo studio per affidarle l’allestimento di un negozio che voleva diverso da tutti gli altri e che avrebbe aperto in Galleria Passerella, in uno spazio da lei stessa trovato e svuotato e smantellato all’interno totalmente, fino all’osso e al cemento, aprendo delle fessure nel pavimento in corrispondenza delle quali erano poste degli specchi inclinati per fare intravvedere lo spazio del piano inferiore già dall’esterno del negozio. Uno spazio tutto bianco opaco, anche il pavimento, così da poterne fare una totale vetrina. Conduceva al soppalco una scala di ferro verniciata di azzurro pervinca, di color fiordaliso lo definì poeticamente Camilla Cederna, evocandone per esso la freschezza e il profumo di un fiore. Di ferro era la struttura espositiva e lo erano anche gli sgabelli da trattori, come quelli che avevano ispirato Mezzadro ad Achille e Pier Giacomo Castiglioni.
Tutti gli allestimenti di Amalia sono spazi strutturati in modo da creare incontri di forme geometriche primarie che danno luogo a uno scarto, conferiscono movimento, possibilità di trasformazione, diversi montaggi, in un che d’incompiuto e di volto all’interno che si rovescia nell’esterno. Modificano, frangono, moltiplicano l’ambiente. Ricercano il vuoto anziché il pieno, il dentro anziché il fuori, il discontinuo anziché del simmetrico, in cui fare con meno è anzitutto un fare in modo diverso. Sono questi gli elementi che caratterizzano questi due primi negozi, in cui è presente un nuovo linguaggio formale e funzionale, che fa intravedere un nuovo tipo di habitat fatto di spazi trasformabili, spazi favorevoli alla sperimentazione, agli scambi interpersonali, in cui l’arredamento sparisce per dar luogo all’habitat. Tutto è pensato a partire dal corpo e dal gesto, in sua funzione e in relazione con la vita quotidiana, con grande attenzione ai valori percettivi, sensoriali, ludici o d’informazione.
Eleonora Fiorani
A partire dalla immagine del modello del progetto credo sia in altre parole interessante uscire dalla prospettiva di lettura del negozio come “immagine” – alla stregua di altri prodotti di comunicazione del marchio – e di considerarlo invece un “oggetto” tridimensionale che si incastra nel tessuto urbano milanese rivoluzionando forma e funzione del così detto concept store.
D’altra parte è proprio Elio Fiorucci che in una nota intervista ribadisce il concetto di per sé semplice: “La scala del negozio lei (Amalia) l’ha costruita e concepita come fosse una scultura…”.
Dalle parole di Amalia, la storia del negozio ha un sapore profondamente milanese che inquadra la vicenda in un clima di trasformazione dei gusti e del successivo cambio di comportamenti della città.
Paola Niccolin