1965
Negozio Gulp!
Via Santo Spirito 19, Milano
Camilla Cederna, Il lato debole. L’occhio di Gulp!, in “L’Espresso”, 13 novembre 1966
1965
Negozio Gulp!
Via Santo Spirito 19, Milano
Camilla Cederna, Il lato debole. L’occhio di Gulp!, in “L’Espresso”, 13 novembre 1966
Se guardiamo i suoi allestimenti, vediamo che in essi è presente un costruttivismo originale nell’intenzione destabilizzante e straniante che ci rimanda ai costruttivisti russi a El Litsinskji, Tatlin, Moholy-Nagy invece che a Gabo e Pevsner, come avviene nella scultura. Nei negozi da lei allestiti e inventati è, infatti, presente una peculiare spazialità e un modo di pensare lo spazio, e di sensibilizzarlo, lavorando sul vuoto, come nessuno aveva ancora fatto, che la stampa dell’epoca coglie definendo Gulp!!, il primo dei suoi allestimenti, un “negozio spaziale” per la moda “beat”. Collocato nel centro di Milano, in via Santo Spirito, aveva adottato come nome un’interazione caratteristica dei fumetti di Walt Disney recitato da un’apposita striscia, al fine di evocare l’irruzione del mondo giovane che si affacciava alla storia con un modo diverso di essere. La spazialità di Gulp!! realizzata da Amalia Del Ponte è un effetto anzitutto dell’introduzione del bianco come colore dell’ambiente, un bianco che non è quello metafisico e mentale dell’astrazione, ma quello minimalista e lieve del vuoto zen, allietato e reso ludico da un motivo ornamentale su un’unica parete, lo stesso riprodotto anche sulle borse di carta (anticipando per certi aspetti l’idea di concept store). E poi era un effetto dello svuotamento dello spazio, attuato sostituendo al mobilio tradizionale delle scaffalature in compensato leggero con dei cassetti di cartone bianco . Gli abiti erano semplicemente appesi a un sottile tubo d’acciaio che fuoriusciva da un pilastro, i camerini erano creati dalle sole pareti e senza porta, come faranno trent’anni dopo i designer giapponesi. Due tavoli rotondi in lamiera laccata di bianco che li faceva sembrare leggeri e aerei come fossero fatti di carta, fungevano da banco di vendita. La moquette di un caldo nocciola del pavimento rivestiva anche un sedile-divano in muratura per creare un’atmosfera accogliente e ludica vicino a un juke-box e un frigo bar posto a disposizione dei clienti. E come non bastasse, tra le cose più mirabili e sorprendenti, c’era un controsoffitto realizzato con una tela bianca movimentata da delle estroflessioni dove erano alloggiate le luci.
Era un modo di pensare i luoghi della moda e il corpo vestito che richiedeva una visione anticonvenzionale dell’arredo simile a quella di Joe Colombo che sostituisce l’attrezzare all’arredare, pensando gli oggetti in funzione del corpo e dell’uso. E’ un anticipo su ciò che avrebbe fatto e distanza di trent’anni l’architettura degli showroom dei negozi svuotati e tutti bianchi.
Era già quella di Amalia una mutazione del modo di pensare il negozio, che diventa tutt’uno con la metropoli, che rovescia la relazione tra interno ed esterno, e di pensare il consumo di moda e l’oggetto di moda che acquisisce una dimensione ludica e diventa momento d’incontro e scambio in sintonia con lo spirito dei tempi che stava mutando il mondo e faceva anche del vestirsi l’espressione della propria personalità. Vi si vendevano abiti di Albini, magliette di Bellotti, gioielli della stessa Amalia e le prime minigonne.
Eleonora Fiorani