1967
Salone Internazionale dei Giovani
a cura di Guido Ballo
Civica Galleria d'Arte Moderna, Milano
Guido Ballo
“Nei contrasti che ormai distinguono la nostra epoca, in cui l'individualismo da all'artista libertà espressive un tempo inconcepibili, (da qui anche le ansie di una corsa al nuovo, spesso inteso come conquista mitica, e il senso di solitudine, con monologhi e appigli troppo provvisori si possono indicare oggi, tra i giovani, piu che tendenze precise di gruppi, con poetiche chiare, alcune componenti di un clima di ricerche, le quali accomunano linguaggi per tanti versi anche opposti. Il concetto di contaminazione tra vita e arte, per cui l’azione psichica non può distinguersi dall'azione estetica, è diventato quasi un presupposto necessario. Alle origini è il simbolismo, che già dalla fine del secolo scorso ha fatto sentire decisamente, attraverso i valori evocativi di linee colori luci in funzione dello stato d'animo, l'impossibile distinzione tra arte che si contempla con distacco e suggestione psichica, che coinvolge lo spettatore. Il superamento del concetto di un'arte intesa come imitazione della natura divenne così la premessa a tutte le successive avanguardie: le quali, anche quando mirarono a una purezza incontaminata, non fecero più a meno, con nuova coscienza critica, del valore dei simboli visivi (linee volumi colori luci), in cui il riferimento, indiretto, si vale anche di azione psichica. Fu così che lo stesso astrattismo nacque - e il caso di Kandinsky ne dà conferma - da una ricchezza di contenuti psichici e non da formalismo (se ne accorse Boccioni, quando affermava che a Kandinsky nuoceva l'eccesso di contenuti, che non si concretavano, secondo il suo giudizio, nel dominio della forma). Soprattutto espressionisti, futuristi, dadaisti e surrealisti portarono ai limiti estremi, fino agli sviluppi del secondo dopoguerra, il concetto di contaminazione tra vita e arte: contaminare l'arte con la vita, e la vita con l'arte (come già sentirono i decadentisti), significava rompere ogni limite tra visione contemplativa e attiva partecipazione. Gli espressionisti spinsero questo concetto fino a coinvolgere la vita morale nell'arte, che mirò dunque alla confessione, ma anche all'accusa, al grido, alla provocazione etica esterno e interno, ovviamente, su questa strada prima o dopo coincidono, perché la partecipazione espressiva tende ad essere totale; i futuristi, di là dal mito del dinamismo, per ottenere «il nuovo della vita moderna», rompono le vecchie tecniche, usano materie nuove (il polimaterico delle sculture, fin dal 1911, è già volontà di contaminazione), provocano il pubblico, agiscono; i dadaisti, più di tutti gli altri, portano questo concetto di contaminazione ai limiti estremi, coi «ready-mades» e con gli «assemblages», in cui oggetti diversi sono accostati ai fini espressivi; per i surrealisti, mentre è impossibile una distinzione tra realtà e sogno, la contaminazione psichica interviene nelle ricerche del segno automatico e nell'uso senza limiti dell'analogia, per cui gli oggetti più svariati, appunto come nel sogno, si richiamano e formano nuove «nature», di là del reale di tutti i giorni. Ma soprattutto sono le tecniche a rinnovarsi e i materiali, che superano così i generi di pittura e scultura: si usano i colori, ma il pennello non basta più a rendere l'irrazionalità della vita e il conseguente assurdo, in cui questi artisti credono; si incollano carte, cartoni, giornali, al posto dei colori, ma si supera anche il fatto estetico, formale, seguito dal rigore dei cubisti; i collages dadaisti contaminano anche i materiali, portano la risonanza psichica: si incollano suole di scarpe, rimasugli, ferri, che «parlano» con una loro particolare «storia» psichica, per cui il collage dadaista va oltre il concetto di forma, si arricchisce di contenuti psichici; il colore stesso viene spruzzato, gettato come a caso, e sorge la tecnica del «dripping», e del «flottage»; sorge anche la tecnica, anch'essa meccanica, del «frottage», quando dalla vita si prendono delle sagome e meccanicamente si ricalcano; e soccorre anche la fotografia, col fotomontaggio - altra contaminazione - o con la proiezione sulla tela emulsionata. Ma non basta: si taglia, o si buca anche, la tela, per nuovi effetti espressivi in modo da far sentire di più il gesto, o si incollano manifesti strappati, tolti dai muri. E se a volte questa esasperazione, che vuole contaminare in tutti i modi il limite tra vita e arte, produce opere soltanto polemiche, provocatorie o, quando siano una ripetizione non vissuta, opere già in certo senso accademiche, nessuno in buona fede può affermare che non ci sia stata una spinta ricca di vitalità, che ha rinnovato le possibilità espressive. È chiaro che i giovani - ed è già una altra componente del clima di oggi – non possono non risentire di tutta questa spinta: vorrei solo dire questo, che appunto per tali esempi passati, la tensione della ricerca oggi diventa più acuta, più drammatica, più difficile nell'impegno (ed è sempre questo il vero impegno, totale). Potranno convincere più o meno certi risultati - o anche certe proposte troppo intenzionali, - ma non si può negare l'impegno, almeno in molti dei giovani, per ottenere linguaggi che siano vivi. Conseguenza di tali premesse - ed ecco un'altra componente - sono dunque «l'opera aperta», il bisogno di comunicare mediante una mitologia presa dalla vita di tutti i giorni e contaminata, il continuo rinnovamento dei mezzi tecnici per altri fini espressivi, lo sperimentalismo delle ricerche visuali che sembrano dare maggior valore alle proposte più che ai risultati (ma che alla fine, spesso, ottengono risultati poetici in modo nuovo), e sempre il lirismo più rarefatto, più sottile nelle invenzioni fantastiche e, d'altra parte, la necessità di aderire alla funzione: sono, come si vede, tendenze in contrasto, ma che rispondono alla crisi individualistica e allo sviluppo di strutture instabili della nostra società di oggi. «L'opera aperta» non si conclude in sé, come risultato perfetto, da contemplare: è integrata dall'intervento dello spettatore, il quale dunque non guarda semplicemente, come un tempo, ma agisce, trasforma l'opera stessa, concorre con la sua fantasia ai molteplici effetti espressivi; diventa dunque quasi sempre opera mobile, cinetica. In sostanza è come un dialogo, quanto più vivo, quasi alla pari, tra artista e spettatore. Ciò presuppone, almeno nel costume, la spinta del pragmatismo, come filosofia dell'azione, e del relativismo, che ha fatto moltiplicare i punti di vista ed ha fatto sentire di più il senso del provvisorio e lo spazio-tempo, cioè il dinamismo, senza punti fermi, tipico della vita di oggi. Occorre però chiarire che tali concezioni agiscono solo come costume, non come puri concetti filosofici: gli artisti ne risentono non studiando teorie o trattati sui libri, ma percependone gli effetti nel costume, nella vita quotidiana. Da questo punto di vista potrà esaminarsi anche il rapporto con la scienza, che in certi casi diventa addirittura mitico: ormai è entrato nel costume di tutti i giorni il concetto che la scienza sia il vero fondamento della nostra epoca; ed ecco artisti impadronirsi di certo metodo scientifico e portarlo nel processo dell'arte, eliminando, in apparenza, ogni effetto irrazionale di sensibilità, di sentimento, di accentuazione espressiva, esasperata in periodo romantico. Ma a guardare bene si tratta, in realtà, di uno sconfinamento, di una rinunzia a certe forme di arte, intese con purezza contemplativa, perfetta e conclusa, per ottenere altri effetti nel campo delle ricerche, della sperimentazione continua: ma è questa sperimentazione che, alla fine, da nuovi accenti espressivi, contaminati o accesi (in un modo che può invece apparire freddo) dalla ricerca e da un più segreto rapporto con la vita, col costume, che offre altri stimoli estetici: tanto più che spesso il metodo scientifico da molti artisti è come «orecchiato», più che approfondito. Ciò non toglie che qualcuno di loro anche oggi sia un severo studioso della scienza: ma alla fine, nel caso delle sperimentazioni dell'arte, il processo diventa sempre fantastico, anche quando può sembrare freddamente logico, razionale (gli esempi di Mondrian, di Klee, di Gropius, in un recente passato, sono indicativi: e altri giovani, oggi, danno nuove conferme di tale processo). È da notare poi un altro fatto: tutte le ricerche visuali, pur sconfinando in certo metodo scientifico - tanto da potersi opportunamente parlare di sistema «programmato» - non vogliono mai aderire a una funzione pratica. Ogni ricerca o proposta intende restare «pura», quasi che la rispondenza alla pratica potesse guastarne il distacco teoretico: si amano tutte le contaminazioni possibili tra vita e arte, tra opera e spettatore, si superano i generi di pittura e scultura, si tende al movimento, alla cinetica, si può sconfinare anche nel gioco, nella cosiddetta «arte ludica» (e dopo tanta angoscia, vera o intenzionale, degli anni passati, anche le immagini ludiche rispondono a una esigenza di liberazione espressiva), ma si evita la funzione dell’utile, la rispondenza a uno scopo pratico. Ci sono, per questo – sembrano dire gli assertori delle ricerche visuali – l’industrial design, il manifesto pubblicitario, la fotografia funzionale o altri generi volti chiaramente all'utile. Ma a questo punto appare evidente il mito, di origine ancora crociana: che la rispondenza alla pratica, all'utile, tolga all'attività artistica ogni carattere di libertà pura, la quale dovrebbe essere soltanto teoretica. Non è possibile accettare tale mito, ormai: le proposte delle ricerche visuali a un certo momento sono, sotto tanti aspetti, analoghe o addirittura si confondono con quelle per l'industrial design, per la grafica pubblicitaria, per la fotografia più funzionale e per altri generi legati all'attività pratica. Non a caso i maggiori esponenti della Bauhaus furono artisti purissimi, come Klee e Kandinsky, i quali sentirono il bisogno di moltiplicare la qualità più perfetta nella quantità, producendo prodotti in serie, dove la funzione pratica era un attributo non in contrasto con la perfezione estetica. Insomma, la divisione tra arte pura e arte con funzione utile non può ormai continuare a persistere, perché è un pregiudizio: una bella linea di carrozzeria, un bel manifesto pubblicitario (e proprio Toulouse Lautrec è più vivo oggi nei suoi affiches che non nelle pitture a olio), una fotografia, funzionale o no, possono essere sullo stesso piano di un dipinto, di una immagine che non abbiano scopo pratico. Ecco perché in questo Salone Internazionale dei Giovani si è voluto esporre anche una scelta di opere a carattere utile: d'industrial design e di grafica pubblicitaria, a cui si sono aggiunti esempi di proposte fotografiche (tra l'altro, proprio la fotografia è usata ormai, come mezzo pittorico, in molti dipinti: tanto vale esporre anche delle fotografie non contaminate). Ciò non esclude, ovviamente, il puro lirismo di altri artisti, i quali, nella mostra, sono presenti con ricerche di linguaggi spesso in contrasto, ma che accomunano, infine, o segnano graduali, impercettibili passaggi (per l'uso delle materie nuove, per il bisogno di aprire l'opera nell'ambiente, per la dinamica compositiva, per il superamento spaziale di scultura e pittura, per certi richiami ritmici o anche per la moltiplicazione in serie meccanica di una stessa opera) tra le tendenze della nuova figurazione, delle ricerche visuali, degli sviluppi del segno. La nuova figurazione, che quando cercò di opporsi a certo informale (ancora vivo, oggi, in vari aspetti e con nuove evoluzioni) non poteva evitare molti equivoci, nasce dal bisogno del racconto, della relazione dell’uomo con la società del nostro tempo: ma è sempre una figurazione che trae suggerimenti da certi metodi astrattisti (e naturalmente, di altre avanguardie, cui ho già accennato) in uno spazio che all'occhio comune può sembrare irreale. Il fatto è che la realtà della nuova figurazione non resta soltanto fuori di noi, ma vive in noi: e si serve dunque dell'analogia, del ricordo, della trasposizione, di tutto ciò che può sollecitare immagini nuove: essendo coscienti ormai, gli artisti, dopo gli sviluppi del simbolismo, che anche i colori le linee le forme le materie stesse «parlano», «raccontano», di là dal motivo di «rappresentazione»: la quale dunque può non essere annullata, ma arricchita da altri apporti ritenuti astratti. Il segno, dall'automatismo surrealista al gesto più impetuoso, ai ritmi cadenzati con distacco, nei giovani ha trovato altri sviluppi in nuove dimensioni, al confine tra ricerche visive e proposte di ambientazione spaziale. Del resto, il lirismo più sottile e nello stesso tempo immediato si vale ormai di nuove materie, ottenendo effetti ritmici nuovi, e quindi immagini inedite (si può parlare sempre d'immagine, quando tutto debba essere «visto», percepito dall'occhio nel suo insieme): anzi, a questo punto, è solo questione di vera rispondenza alle possibilità espressive dei singoli artisti, i quali, per indole, possono tendere di più alla purezza di compo sizioni, con distacco contemplativo, o alla partecipazione totale all'espressione; essere inclini ad effetti drammatici o di divertimento, di gioco ironico, di immediatezza impulsiva o di severità strutturale o addirittura di programmazione, ai limiti di un razionalismo che alla fine diventa lucidamente fantastico. Proprio tra i giovani si sente, comunque, l'esigenza di un nuovo rigore, di una severità d'impegno, anche quando certi effetti possono sembrare prodotto di evasione: anzi, a me pare che, in genere, gli accenti più nuovi oggi siano in questa esigenza di rigore espressivo, di lucida fantasia: almeno, nei migliori. Ma la molteplicità delle tendenze, accomunate da tale impegno espressivo, è oggi ragione di vitalità. E in un'ampia antologia come questa non tutto, evidentemente, può stare sullo stesso piano di linguaggio raggiunto: ci sono anche opere discutibili, scoperte nelle intenzioni, ma appunto per questo utili in una esposizione, perché ne nascono confronti, sollecitazioni, critiche, consensi. È da augurarsi soltanto che questo Salone, nato da una mia lontana idea (sto da molti anni sempre tra i giovani), e già attuato come prima, occasionale proposta a Venezia nel giugno del '66, possa ripetersi ogni anno, a Milano e anche in altre città, in modo da permettere, in poche edizioni, un panorama quanto più completo dell'arte e delle ricerche della generazione più giovane. In questa particolare edizione milanese (fatta senza i minimi aiuti economici: il catalogo è pagato, in cambio opere, dagli artisti del comitato promotore, e l'unico contributo - irrisorio per una mostra a Milano - è qualche pagina di pubblicità sul catalogo stesso, da parte di rari sostenitori), la scelta non implica giudizi negativi per gli esclusi (tra l'altro, si è adottato il criterio di escludere chi abbia avuto la sala alla Biennale di Venezia), ma soltanto un amichevole incontro di alcuni artisti, per avviare un discorso e creare uno strumento che può diventare sempre più utile alla città, al pubblico, alla cultura.”
Artisti partecipanti: Adami, Angeli, Arakawa, Baratella, Baroni, Beynon, Bianchi-Battaglini, Biasi, Bignardi, Bonalumi, Boshier, Buri, Caulfield, Ceroli, Del Ponte, Damnianovic, De Filippi, De Valle, Pergola, Ferrò, Gambone, Gandini, Gilardi, Giorgi, Gerstner, Gruppo Enne (Chiggio, Massironi), Gruppo T (Boriani, Colombo, De Vecchi, Scheggi, Varisco), Gruppo Zero (Mack, Uecker, Hockney, Hiippi, Jacquet, Klapheck, Klasen), Lorenzetti, Mari, Marzot, Morellet, Nesbitt, Pardi, Pascali, Pasotti, Patelli, Plessi, Pozzati, Raffaele, Ramella, Ramosa, Rancillac, Raynaud, Santoro, Sarkis, Schifano, Simonetti, Smith, Sordini, Spagnulo, Tacchi, Tadini, Tilson, Trubbiani, Vigo, Volpini, Bellini, Manzù, Van Onck.Ballo, Baumann, Eberle, Gregorietti, Negri, Noorda, Osterwalder.