Eleonora Fiorani
Nei mondi del meraviglioso contemporaneo
“E’ un percorso iniziatico di conoscenza, che vuole risvegliare lo spirito dormiente delle cose nascoste fuori e dentro di noi, e che aleggiano dentro, sotto, intorno all’isola, ma è anche un percorso di godimento dell’occhio, del vedere.
E nella visione il soggetto si rivela a se stesso e ha accesso all’essere originario che ci circonda e ci attraversa. La visione dell’artista, infatti, vede e ci fa vedere ciò che manca al mondo per essere un’opera, vede la presenza della materia del mondo che resterebbe nascosta. E’ questo il senso delle lenti ottiche con cui esperire ciò a cui non avremmo accesso, di immergerci nell’altrove fuori e dentro di noi, nel riconoscersi nel desiderio di un luogo in cui non siamo mai nati ma a cui apparteniamo.
E’ in questo che l’invisibile si incontra con il visibile perché il vedere a cui l’opera ci dà accesso, è, come diceva Merleau-Ponty, vedere più di quanto si vede, è accedere a un essere della latenza.
E’ vedere nelle cose il silenzio che le circonda, che sta loro intorno.
E Amalia Del Ponte ha sempre guardato di traverso, di sbieco, e sondato ciò che non si vede, lo spazio o l’intervallo tra i corpi materici nelle sue sculture, o la luce che le fa essere e le possibilità riflettenti del plexiglas, o la voce o il suono o il canto nelle pietre e del marmo.
La sua è una visione in negativo, capace di vedere gli intervalli delle cose e ascoltare la loro voce. Sta in ciò anche la peculiare utilizzazione, che qui fa della scienza e della tecnica, che, come nell’amato Gabo, le manipole per dar loro un senso diverso o più ampio, quello di un cominciamento in cui cercare e far emergere le possibilità inesplorate, le relazioni alternative che si danno nel rapporto dell’uomo con i saperi e le tecnologie.
L’opera di Amalia, Il regno dei possibili, invisibili, per l’isola La Certosa a Venezia è ad essa perfettamente contestuale, anche se non è stata pensata per questo luogo specifico, ma perché di esso ben coglie il senso nella pluralità dei significati che qui assume: luogo come isola, una creatura dell’acqua, in cui sono racchiusi i segreti della vita, quindi un luogo in cui evocare l’originario e il primordiale e insieme luogo simbolico, di infinite narrazioni, archetipo della forma perfetta e del luogo felice, in cui si declinano le fascinazioni dell’utopia.
E perché collega la sua parte nuova, andando a interagire su quella della sua memoria stratificata, nel muro di contrasto, nelle quattro Casematte, silenti nell’abbandono e nella rovina, ma ancora in piedi. E’ in ognuna esse, nel pavimento, che installa i suoi oblo-lente, ciascuno, come lei stessa descrive ampliamente e motiva con precisione, con il proprio mondo: nel primo di microrganismi animali, e poi, nel secondo, di quelli vegetali, come ce li fa vedere il microscopio ottico, e, quando non è possibile, disegnandoli, nel terzo oblò, per giungere infine, nel quarto, a un filmato con le immagine del nostro inconscio. Ma non è solo in questo che consiste l’operazione di Amalia Del Ponte, ma in ciò che, così facendo, si eventua. Perché, l’uso della simulazione, del disegno, del filmato nell’intervento dell’arte ci dà accesso anon a verità geometriche ma a presenze fenomeniche che ricreano un rapporto osmotico con le diverse forme della vita e con l’altro che ci abita, con la stoffa di cui è fatto l’essere del mondo.
L’oblò è, infatti, una modulazione di una spazialità preliminare, è un’apertura, una architettura del vuoto e dell’altrove in cui rendere visibile l’invisibile. E in cui quel che si produce è un appunto un evento e quel che si manifesta è una presenza in cui osservatore, spazio, opera, che di questo spazio trasforma le coordinate percettive, costituiscono un insieme indivisibile.”