Eleonora Fiorani
Forme, concetti, suoni
Casa del Mantegna, Mantova
1994
“Amalia Del Ponte, che dagli anni Sessanta conduce una propria solitaria e originale ricerca nella scultura, è sempre diversa, quindi ogni volta ci stupisce e ci sorprende; e ogni incontro con lei è scoperta di nuovi modi in cui le strutture profonde della materia possono essere sondate e prendere forma. Siamo introdotti, attraverso la visione, alla materia come luce, come energia: ai tanti modi in cui un oggetto può essere percepito. E ciò ci incanta e certo anche ci destabilizza e ci inquieta. I litofoni, le pietre sonore, sono l'oggetto della sua attuale ricerca, iniziata nell'85. Con essi è tornata a intagliare forme perfette nella pietra. Persino a parlare il linguaggio antico del marmo; e però non ricerca la sua morbida purezza ne la sua lucentezza dolce (Hegel), ma i rapporti che intercorrono tra la forma e il suono. I suoi litofoni sono forme-suono, che rimandano al di là del visibile a ritrovare l'invisibile delle corris- pondenze che collegano le forme geometriche con la loro misura alle scale musicali e a quelle dei colori. Il suono materializza questa corrispondenza. Ordine e armonia: i litofoni sono forme geometriche: rettangolari, rotonde, lunate. Prevalgono le grandi lastre, che conviene innanzitutto descrivere: sono parietali e staccate dalle pareti, per essere 'percosse' a rintocco sul davanti e nel verso. Non sono bassorilievi, ma sculture con graffiti, prevalentemente su serpentino delle Alpi, o rettangoli di marmo di Carrara,o lastre di travertino più recentemente, in una mostra romana, con riferimento memoriale alla pietra locale: esaltano la perturbazione cosmica, il macromovimento sonoro-visivo. Quello stesso che troviamo presente nella nuova immagine della materia con le sue turbolenze che ci dà Prigogine. O il soffio universalistico astratto. E dunque le forme-suono stanno davanti a noi nella loro consistenza, ma la loro forma di perfetta misura e le suggestioni che ci vengono dai graffiti ne fanno tutt'insieme il punto di partenza di una tabulazione in cui fuoruscire da sé per ritrovarsi in una narrazione cosmica. Esse stesse inducono a una visione sonora nell'immaginario. La materia è energia in cui si originano e si sviluppano le cose e i mondi; e il pensiero cerca e immagina nascoste armonie e corrispondenze. L'artista ritrova la qualità sonora della materia, presente nei miti e negli immaginari delle culture antiche e 'altre'. E, con atteggiamento caratteristico dell'avanguardia, accosta la grammatica della musica e la grammatica della struttura della materia: cerca le corrispondenze tra onde sonore e onde luminose, opera sui fattori fisici che presiedono all'organizzazione delle forme e del suono nella sua purezza di vibrazione e energia. Il suono rompe la pietrificazione del mondo: le onde dilatano la materia nello spazio e introducono il tempo: la ricerca sulle forme si incontra con quella sulla struttura dei suoni in una liberazione della materia dall'inerzia, che restituisce alla materia la sua voce, il suo ritmo interiore, la sua temporalità. La natura sonora della forma particolare di pietra rivela il proprio timbro e voce quando viene percossa. E allora l'universo ci appare (o ci illude) come costituito da proporzioni armoniche, come «vivente che danza con leggi musicali» (Marsilio Ficino). L'artista è dunque portatrice di una concezione 'sinestetica' dell'arte: instaura un rapporto biunivoco fra visivo e auditivo, e anche tattile, tendendo ad estendersi a tutti i sensi in accordo; e, come abbiamo detto, vuole convocare su ciò (con gusto duchampiano) straordinari riferimenti alle civiltà altre (orientali e arcaiche) e anche presocratiche e rinascimentali. E' suggestivo tale rinvio, mentre la motivazione è schiettamente novecentesca nel senso appunto 'cinestetico' delle avanguardie (secondo le stesse famose 'corrispondenze' baudelairiane, con qualche tecnica allegorica presentata come 'metafisica'). Del resto per il buddismo anche la mente è un ' senso'. I graffiti alludono a complessi ordini simbolici, mentre certo valgono per sé con propria suggestione formale. Materializzano e annunciano l'invisibile. Il cono dritto sormontato da un cono rovesciato o - il doppio tamburo o crogiuolo - rimanda a un'immagine-simbolo antichissima dell'universo, che «prende a modello il cielo e come figura la terra. Li cerca ripiegandosi su se stesso », così dice un testo antico. Traspaiono nei graffiti inquietanti concrezioni, presenze fossili, memorie, tracce che ci spostano da una zona limitata del tempo alla serie infinita delle strutture e dei viventi. Sono valori archetipici che alludono agli elementi: aria, acqua, fuoco e terra, e ai loro movimenti, vibrazioni e sonorità: ci avviano alla visione sonora. I litofoni sono anche disposti a serie, come dei polilitici, con le loro diverse misure, a quattro o a sette note. Straordinaria e di grande intensità espressionista l'ultima versione di un polilitico Acqua nell'acqua a quattro lastre attraversate da una grande onda a scroscio. I litofoni vogliono essere suonati e diventano allora il centro di un evento, di un incontro tra due espressioni artistiche, con grande suggestione, mentre certo anche ci restituiscono in tutta la sua complessità il rapporto dell'uomo con la pietra, la prima materia del mondo. Il percorso di ricerca Gli inizi sono importanti: i suoi sono con Marino Marini, da cui apprende oltre alla sapienza della lavorazione dei materiali anche il gusto per il carattere artigianale della scultura, che resta una sua caratteristica importante. Ma ciò che la muove è l'esigenza di andare oltre la scultura (diventata, secondo Arturo Martini «lingua morta», quindi da ritrovare in forme nuove). I suoi riferimenti si muovono in direzione di Klee e dei costruttivisti russi come Gabo, Pevsner, Moholy-Nagy. E caratteristica di questo periodo la lavorazione del gesso, che la affascina per la sua malleabilità. Troviamo una spazialità e un costruttivismo originale, fin dall'inizio, per l'intenzione destabilizzante e straniante che li caratterizza. I blocchi in marmo e in bronzo costituiscono l'avvio di una ricerca che rompe la staticità della forma e avvia alle strutture interne e profonde della materia. I bozzetti, che sono opere compiute in se stesse, mostrano appunto la frantumazione dell'unicità formale Se esaminiamo il bozzetto di marmo Nero del Belgio, vediamo che esso è il risultato dell'incontro di due forme che non si incastrano perfettamente, dando luogo a uno scarto, a una piegatura, a un incavo ampio, che gli conferisce un'insolita andatura di movimento, mentre anche suggerisce un che di incompiuto e di volto all'interno, apre uno spazio di vuoto. In quello di bronzo, si infittiscono le forme che si incontrano in modo dissimmetrico: gli spigoli acuti, nervosi creano nella materia una sequenza di falle e di oscure zone interne. Una ricerca del vuoto, dunque, anziché del pieno, del dentro anziché del fuori, del discontinuo anziché del continuo, del dissimmetrico anziché del simmetrico. I prismi o Tropi (1965-72) sono l'opera giovanile fondamentale. Corpi trasparenti «lente e schermo nello stesso tempo» così li ha definiti Vittorio Fagone (1967), osservando anche come il «fare» dell'artista opera «sulla straordinaria potenzialità ottica della materia stessa con un'operazione ... di 'trasformazione formale', dentro i confini di un linguaggio formale». I Tropi sono solidi elementari, forme o 'strutture primarie', si è detto, perfette geometrie con intento espressivo. Identici e differenti, mutano sotto il nostro sguardo e destabilizzano l'ambiente in cui sono immersi. O, se si vuole, creano «ambienti dove un oggetto plastico agisce da elemento animatore con il concorso della luce». (G. Dorfles). Ne risulta una sorta di impatto «sul filo teso della simmetria» (V. Fagone), un'evidenziazione ostinata e iterativa della geometria del mondo fisico: il cui risultato è un'inquietante e ambivalente destabilizzazione dell'oggetto stesso e dell'ambiente; in quanto «il gioco razionale» predisposto dagli spigoli e dai piani rigorosamente calcolati risulta «senza compimenti»: un gioco di riflessioni che insieme nega e afferma. La lettura di Fagone insiste sulla immaterialità: nell'immissione in uno spazio artificiale, o in uno spazio interno, con una sorta di negativo del mondo reale. Ma certamente l'opera ha una presenza fisica netta e supplementare, allargante con la rifrazione; non produce alcun azzeramento. Il termine tropi, è di Vittorio Fagone, che presenta la mostra del '67, da intendersi in intensione ed estensione. Val la pena di ricordare la vasta gamma semantica della parola tropos di origine indoeuropea che indica movimento e trasformazione insieme, il volgersi verso, e muta di significato le parole a cui viene unita. E dunque una parola insieme della differenza e della messa in relazione. Il carattere ambivalente dei tropi viene per Anne Marie Sauzeau dalla «virtualità» del loro corpo, dal loro essere «un luogo direzionale, una posizione di rimando ad altro (come la metafora)». Sono presenze che mettono in questione l'idea stessa di scultura, ne danno un altro modo d'essere rovesciandone i termini. Ma sono anche degli evidenziatori che modificano, frangono e moltiplicano l'ambiente in cui sono inseriti. C'è la sperimentazione e l'utilizzo di materiali tecnologici nuovi, come il plexiglas, che viene fuso a formare i prismi fino a due metri di altezza. E ciò vale insieme come inserimento, in contraddizione e urto, nella nuova società tecnologica: con idea di appropriazione umanizzante di queste nuove resine che invadono la nostra vita. E con quella anche, strutturando dei multipli, di arte per tutti. Una «scultura-assenza» certo, come pare alla Sauzeau, ma anche, a mio parere, l'emergere di un'idea 'metafisica', leibniziana, per cui i punti sono centri inestesi di forza e di attività e le misure esprimono le cose stesse. La realtà di una cosa si da allo sguardo solo attraverso gli infiniti profili che offre all'osservatore, così la realtà del mondo non è qualcosa che sussista in sé, ma si risolve nelle infinite e inesauribili prospettive che si offrono ad essa. E lei dà dei Tropi anche una realizzazione del tutto immaginaria, tracciandoli semplicemente al suolo con fili metallici e facendo apparire sulle pareti le loro altrettanto virtuali proiezioni. Nella Biennale di San Paolo (1973) crea una vera e propria area percettiva costruendo una stanza senza angoli a 90° che annulla la visione prospettica e muta profondamente la percezione. E, come sappiamo, dopo Maurice Merleau Ponty, la percezione è donazione di senso al mondo: attraverso l'arte il pensiero può collocarsi su un terreno originario in cui il mondo e il nostro corpo fanno tutt'uno. Una seconda serie di opere, che segue subito dopo la serie dei Tropi, è prodotta dall'accostamento di solidi trsparenti a blocchi di cemento o a lastre di ferro. Qui la capacità di riflessione della luce dell'ambiente da parte dei tropi, la loro capacità inglobante e di messa in relazione è ' controllata' dalle masse opache, o meglio è mirata dentro di esse. Ciò crea certo una strana contaminazione tra l'opaco e il ruvido e il trasparente, ma soprattutto dà vita a un’apertura fantasmatica dentro la materia, in un'illusoria entrata all'interno. E, come dice Guido Ballo (1972), «suggeriscono l'idea di un ritmo primario che si allarga allo spazio circostante: non soltanto per il richiamo dei piani strutturati con l'apertura verso l'ambiente, ma per il colore degli incastri materici». E a me sembra che in queste opere la tendenza plastica forte dell'artista assorba la fenomenologia delle avanguardie degli anni Settanta in un gioco di rifrazione e mobilità. La visività allucinogena tende già qui ad altri sensi. C'è, come ha scritto Gillo Dorfles, «l'acuto interesse per l'aspetto oggettuale della visualità sia nel senso di costruire l'oggetto singolo che nel rapporto dello stesso con lo spazio ambientale». Un prisma posto su un cavalletto, puntato su un ritaglio di giornale con l'immagine di Curcio, un frammento drammaticissimo di vita di lui e di tutti noi, volge l'invenzione sulla visione e sulla luce a serrata indagine del particolare: lo trae dalla totalità annichilente. Vedere è il titolo di quest'opera già concettuale, che viene presentata alla Biennale di Milano del '72: segna il distacco da questa fase che chiude sulla fecalizzazione dei dettagli, sui ribaltamenti delle immagini, sulla creazione pura di spazi virtuali. Val la pena di rilevare che, curiosa- mente, la parola tropos ha anche un significato musicale. E, nella musica greca, il tono, la nota alla base del sistema massimo nelle sue trasformazioni e, in quella medioevale, è la formula melodica che non sempre percorre l'intera ottava. Operazione concettuale è l'installaziolazione del '77: su un antico tappeto persiano sono accostati due testi: un album di fotografie datate 68-76 (registrazione per immagini dei primi otto anni della figlia) da una parte e dall'altra due immagini di altri mondi: una tavola botanica del Seicento con fiore e ovari, e scritta a nastro «eiusdem floris et vaginae magnitudo» e un foglio monco con segni di una lingua sconosciuta, un fragile, misterioso momento di vita indecifrata. La propria esperienza della maternità viene accostata, lucidamente, alle altre forme della generazione e della crescita, e ai modi diversi di pensarla per interrogarsi e interrogare. C'è innanzitutto la vita a due, di madre e figlia, su cui Lea Vergine (1977) ha detto: «è una mappa genetica, evolutiva, la trepida e acuta ricerca fatta da Amalia Del Ponte sul rapporto madre-figlia». Un albo è una mappa, la «cronaca di otto anni di vita in comune, la storia di una dualità, di una coppia di entità tra le quali intercorre una relazione essenziale per entrambe, una topografia particolareggiata (la mappa appunto) di un territorio non troppo vasto. Nulla sfugge tra madre e figlia, tutto viene registrato e talvolta trasfigurato, e si forma come un campo magnetico ricco di impulsi aggressivi e amorosi». Certo c'è qui un vissuto intimo, tenero e drammatico insieme, eppure esso viene anche trasceso e rimanda ad altri significati con la simbologia numerica (l'otto è l'infinito, l'eterno) e con l'accostamento, fìore-seme-vagina ad un altro modo d'essere e di pensare, a un naturale primario: sapere alchemico e sapere scientifico sono qui accostati in polarità antagoniste per Anne Marie Sauzeau. La Del Ponte subisce il fascino delle mappe, che ben si incontrano con la forte caratterizzazione mentale del suo operare. Con esse pensiamo e incaselliamo il mondo, ma anche lo creiamo e lo immaginiamo. Pensiero e visione stanno insieme in infiniti giochi. Le mappe sono, come lei dice «immagini di percorsi mentali» non del soggetto singolo, ma dell'esperienza di ciascuno di noi. E certo aprono anche sull'esperienza del femminile e del quotidiano, lucidamente. La femminilità è esperienza del mondo o più semplicemente il proprio-modo di esperire il mondo? O tutte e due insieme? Un cristallo, due fili di rame, una mano di gesso, un piedestallo: Amalia comincia l'allevamento dei cristalli, immersi nelle loro specifiche soluzioni. Avvia un altro modo di sondare la struttura profonda della materia, o della natura, la sua intelligenza, la sua ambiguità: vuole mettere in questione la distinzione tra il vivo e l'inerte, tra l'organico e l'inorganico, il mentale e il corporeo. «Qui la processualità tempera i propri materiali in un'altra più magica e allusiva, quella dell'alchimia, che tende a cogliere l'intelligenza della materia», così dice Achille Bonito Oliva (1978). E’ profondo e autentico l'interesse per l'alchimia, che vede anche nel '86 la sua partecipazione su questo tema alla Biennale veneziana con un'opera del '79, Uroboros, in cui appare il drago-serpente dell'idea circolare del tempo. L'alchimia, come si sa, è anche percorso della trasmutazione dell'interiorità. E’ un altro modo di pensare il mondo e di sentirsi in comunicazione con esso; è un deposito straordinario di simboli, di archetipi che non solo l'arte, ma la scienza stessa tornano periodicamente a rivisitare. Una minutissima, perfetta perla a forma di uovo, Senza titolo, senza nome (1978) posta su una colonna ad altezza d'uomo è ancora un proce- dere allegorico, che rimanda ad altro. Ma c'è anche un' essenzializzazione mentale che investe i materiali. L'uso di materiali antiedonistici e fragili, ci rimanda ad aspetti dell'arte giapponese definiti sabi o wabi. A rompere il troppo pieno e il continuo e a ricercare il vuoto, che non è il nulla o l'assenza. Musica da camera per sei strumenti - esposta a New York nel 1980 - inaugura la forte corrispondenza visivo-auditiva (con percezione dilatata) che si basa sul suggerimento dell'aspetto ' solo formale' delle custodie. L'opera è nettamente concettuale. Francesco Leonetti (1980) ne ha dato un' accurata e puntuale descrizione. La peculiarità dell'invenzione artistica di Amalia Del Ponte che contamina materiali e concetti sta proprio nel voler coinvolgere tutti i sensi con la molteplicità dei materiali stessi, legno, alabastro, veleno, materia cerebrale. Concludendo, è anche singolare la irregolarità stilistica: non c'è un percorso, un linguaggio solo, ma più-modi di formare anche all'interno di uno stesso periodo. Questa operazione (già duchampiana) è delle avanguardie e dell'arte povera, non è postmoderna: perché non si da mai eclettismo, ma resta forte la rigorizzazione formale astratta. Ed è forte e coerente il filo interiore, mentale che percorre la pluralità delle linee di indagine, che lei stessa esplicita, opera per opera, con dichiarazioni di poetica, ed anche in due libri: Atlante (1978) e La forma del suono (1993), dove pensiero concettuale e pensiero visivo stanno l'uno accanto all'altro.”