1986

Arte e Alchimia

XLII Biennale Internazionale d’Arte, Venezia



Gillo Dorfles

Quanta scienza c’è nell’arte? Ma i veri alchimisti sono sempre rari.

in Corriere della Sera


“Atanor, Rebis, Lapis philosophorum. Bastano alcuni di questi termini di questa misteriosa (e misterica) nomenclatura a creare quell'alone di clandestinità leggermente arcana che è in parte allabase dell'attuale reviviscenza d'interesse per l'alchimia. Nell'impossibilità di addentrarmi, qui, nei meandri dell'Ars Magna, di approfondirne, secondo gli antichi cerimoniali occulti o secondo i recen- ti studi critici, il significato recondito ritengo che già solo la risonanza delle espressioni che segnarono le fasi della Grande Opera - Nigredo, Rubedo, Xantosi, Albedo - possa avvicinarci al significato della loro natura. E, del resto, basta inoltrarsi nella sala della mostra dedicata alla rassegna storica dell'alchimia (a cura di Mino Gabriele) e osservare gli strepitosi manoscritti, gli antichi testi illustrati, le incisioni, per rendersi conto dell'incredibile ricchezza di questa ricerca e per avere almeno una pallida idea di quale immenso patrimonio culturale, simbolico, artistico sia alla base di questa vetusta dottrina. Una tematica, dunque, era ottima (molto più di quanto non lo fosse quella dell'intera Biennale: «Arte e scienza») e nessuno meglio di Arturo Schwarz - che da anni s'interessa con passione a questi problemi - poteva affrontarla). Né mancano in questa marea di opere (circa 400, ma sembra che ne fossero progettate addirittura 2000 !) molti capolavori. Basterebbe citare - tra le moltissime altre - le opere di Max Ernst, di Dalì, Kandinskij, Rops, Arp, Martini, Brancusi. Quello che fa difetto, purtroppo, è la misura e il giudizio assiologico. Perché questa marea di artisti spesso mediocri? Perché questa dilatazione fuori da ogni misura del concetto stesso di alchimia? Certo, come sostiene lo stesso Schwarz, molti artisti creano opere riconducibili a schemi alchemici anche senza esserne coscienti; ma non basta un uovo o un alambicco a «fare» l'opera alchemica; non basta un vago riferimento rosacrusiano o un ancor più labile contrappunto tra mascolino e femminino, un richiamo uterino, una analogia con le Nozze Chimiche, o con la Coniunctio Oppositorum, a trasformare un banale dipinto in un lavoro degno d'essere esposto. Non solo, ma non basta neppure il riferimento a qualche simbologia numerica o alfabetica o a qualche cromatismo riportabile alle fasi dell'Opus Magnum, per individuare l'effettiva rispondenza d'un'opera con le prerogative alchemiche. Se la mostra - così opportunamente ideata e così «inedita» - fosse stata ristretta ai pochi nomi veramente legati alla dottrina, sia per loro effettiva dipendenza (come nel caso di Duchamp, di Rops, di Seligmann, di Lebel, ecc.), sia per loro inconsapevole affinità; ma sempre a patto d'un loro indiscutibile «valore» artistico la mostra avrebbe potuto essere una delle più geniali e affascinanti di molte recenti Biennali. Purtroppo così non è stato; o lo è stato solo in parte. E non può non dispiacere dato che, una volta tanto, un «ente pubblico» (e do atto all'at- tenzione che Maurizio Calvesi ha, da sempre, rivolto a questo tema) si era convinto ad accettare la presentazio- ne dei reperti di una disciplina così eterodossa e tutt'oggi «ermetica» (non solo in senso metaforico). Ma possiamo accettare che di Alchimia si ragioni anche per opere riconducibili soltanto a una matrice surrealista o dadaista? O per una vaga risonanza simbologica? Se alcuni tra gli artisti contemporanei invitati hanno effettivamente carpito - consapevolmente o meno - i messaggi alchemici (e ricordo, ad esempio; Jasper Johns, André Mas- son, Enrico Donati, Claudio Costa, Maurice Henry, Victor Brauner, Alfonso Ossorio, Amalia Del Ponte, Mimmo Paladino, e naturalmente, e tra i più «specifici», Luca Patella), quanti altri hanno inalberato simbologie fasulle. Non basta, insomma, tener conto della importanza di una divisione quaternaria nell'opera alchemica per affermare che la ternarietà di Nigredo Rubedo Albedo può aver isolato a un certo punto la xantosi (la fase «al giallo») permettendo la presenza d'un dipinto tutto di questo colore;

o tutto dorato, a ricordo d'un raggiunto lapis philosophorum. L'appunto maggiore che mi pare di dover rivolgere a questa (come del resto a molte altre sezioni della Biennale) è proprio il seguente: si tenga maggior conto dell'aspetto assiologico - dell'intrinseco valore di pittura e scultura - e non si faccia soccombere a un determinato tema, per originale che sia o possa essere, l'effettiva valutazione di un'opera d'arte. Se la sezione dell'Alchimia ha l'inconveniente dell'eccessiva ampiezza, un'altra sezione - quella delle Wunder kammem -, (ammirevolmente curata da Adalgisa Lugli che già ci aveva offerto un ottimo studio su questo argomento nel libro Naturalia et Mirabilia Mazzotta, 1983), non solo è aderente al tema (a un tema, per l'appunto «meraviglioso»), ma lo è con castigatezza e moderazione; anche se, pure qui, esistono alcuni eccessivi sconfinamenti, come quello, ad esempio del «trofeo» arboreo di Penone. Il fatto di idolatrare, non solo l’unicum, il capolavoro, ma l'assemblaggio e il collezionamento di opere varie magari di scarso valore, ma che insieme costituiscono una «globalità estetica», mi sembra il vero nocciolo della costituzione sia delle Wunder-kammem antiche (come quelle sei-settecentesche, o come i dipinti di Arcimboldi) sia di quelle contemporanee come quelle di Schwitters, di Meret Oppenheim, di Man Ray', di Requichot, di Parmigiani, di Kolar, ecc. La ricerca, dunque, di una sorta di collezionismo dell'improprio, di este- tizzazione del quotidiano, di captazione del meraviglioso (la radice di mandragora che diventa antropomorfa o la pietra paesina che si trasforma in paesaggio), mi sembra un'opera- zione che meritava di essere segnalata e che fa sperare in una possibile, anche futura, capacità dell'uomo di stupirsi di fronte ai messaggi della natura e dell'arte.”





Uroboros

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